Crisi: istruzioni per l’uso

Inverno straordinariamente lungo, quello appena finito, con nevicate e freddo d’altri tempi. Anno straordinariamente lungo il 2008, bisestile a cui gli scienziati avevano deciso di aggiungere un secondo per compensare il rallentamento del pianeta (un’inezia per noi italiani, abituati ai ritardi cronici di treni e aerei, all’eternità del provvisorio e alla provvisorietà del definitivo – un’enormità per gli inesorabili orologi atomici che pretendono di dettare la loro legge anche ai corpi celesti).
Anno di svolta, che entrerà nei libri di storia..
La crisi del 2008 sarà ricordata insieme alla madre di tutte le crisi finanziarie, quella del ’29, o forse riuscirà addirittura a cancellarne la memoria, a superarla in ampiezza e conseguenze. Per i nostri nipoti, magari, la “grande depressione” sarà quella che ci aspetta e non il periodo fra le due guerre mondiali.
Nessuno può fare previsioni serie sulla durata e sulla profondità della crisi. Chi lo fa ha la stessa attendibilità dei cartomanti e degli indovini da settimanale illustrato che infestano certa stampa periodica. E’ un ciarlatano, o peggio, ha qualche interesse a colorare tutto di rosa (ma quale crisi? è solo un temporale passeggero che si risolve continuando a comprare come se niente fosse) o di nero (siamo in crisi, non è colpa mia se le cose vanno male, se non posso mantenere le promesse elettorali…).
Alla larga, quindi, dai venditori di previsioni interessate e dagli spacciatori di illusioni o condanne senza appello.
L’unica cosa sicura è che il conto, alla fine, lo pagheremo noi cittadini.
La voragine creata dalla finanza creativa, dalla liberalizzazione estrema, dalla deregulation e, in ultima analisi, dalla voracità insensata di manager, banchieri e politici (migliaia di miliardi di dollari, cifre che non riusciamo a visualizzare né a immaginare) sarà riempita, secchiello dopo secchiello, da noi contribuenti coi soldini dei nostri stipendi, delle nostre pensioni, dei nostri risparmi. E sarà una pesante ipoteca su un già incerto futuro: la ripresa, quando verrà, sarà rallentata dagli interessi passivi sul debito che gli stati stanno accumulando e ci regalerà un sicuro periodo di inflazione e di alte imposte.
Altro punto fermo, nel mare di incertezze e nell’altalena di previsioni più o meno fosche che ci attorniano, è che la crisi presenterà il conto più salato ai più deboli, in modo inversamente proporzionali alla ricchezza, al patrimonio e, quindi, alle eventuali responsabilità. Questa è solo matematica: se dimezza il reddito annuo, chi poteva contare su centomila euro se ne ritrova in tasca cinquantamila (e dovrà rinunciare alla quarta automobile e al mese di vacanze alle Maldive). Chi a fine mese in busta paga aveva mille euro, con i cinquecento che gli restano non paga neppure più affitto e riscaldamento e si ritrova di colpo fra i poveri “veri”.
E – altra sicurezza ancora più dolorosa – la pagheranno, anzi, la stanno pagando, in particolare i più giovani. Quelli che non avranno più lavoro, non avranno più certezze, non avranno più futuro. E questo, lo spreco di tanti talenti, la frustrazione per gli sforzi e gli studi “inutili”, la delusione di chi ha seminato e non può raccogliere, è per me l’aspetto più devastante e intollerabile della recessione economica.
Perché anche questa, come tutte le crisi, presenta il conto sempre alle persone sbagliate.
La crisi è un male e, come tutti i mali, è sempre ingiusto, profondamente ingiusto. Chi la vede come una salutare dieta dimagrante o peggio, come una punizione divina parla, in genere, dal suo riparo protetto e sicuro, lontano dal dramma e dalla rabbia dei licenziati, dei disoccupati, dei cassaintegrati.
Altro aspetto negativo dei periodi di difficoltà economica è la paura indotta, la tentazione di chiudersi nella difesa disperata di privilegi e prerogative, di vedere l’altro come un nemico, un concorrente venuto a rubarci spazio e lavoro. Le crisi non giovano alla democrazia, possono minacciare le libertà, indurre al razzismo e spianare la strada a regimi totalitari. In tempi difficili si può aggravare la frattura noi/loro che tende a creare dei diversi e a colpevolizzarli, si cercano capri espiatori su cui scaricare rabbie e frustrazioni e si finisce con la classica guerra fra poveri, funzionale a mantenere le disuguaglianze sociali. L’uomo forte di turno può approfittarne (la storia insegna) per proporre o imporre la “sua” soluzione al problema.
Se non possiamo fare ragionevoli previsioni su durata e profondità del dramma, possiamo però cercare di capirne le origini e i motivi, e magari ipotizzare qualche possibile rimedio.
Le cause, come per ogni malattia che si rispetta, si dividono in quelle immediate, che hanno scatenato il problema (ma sono, tutto sommato, più superficiali e contingenti) e quelle vere, profonde: le radici, lunghe e ramificate che hanno generato il disastro, magari in anni di incubazione e senza sintomi apparenti.
Le prime costituiscono l’argomento del giorno di ogni quotidiano economico. I mutui sub-prime, la cartolarizzazione del credito, la sproporzione fra finanza ed economia, i nuovi, pericolosissimi prodotti finanziari e assicurativi, i derivati, la liberalizzazione selvaggia, la scomparsa di regole minime e controlli, le agenzie di rating. Si potrebbe parlarne per giorni, scoprendo i risvolti sconosciuti di un mondo parallelo, ma purtroppo, terribilmente reale.
Ma il cuore del problema, la causa “vera” dobbiamo ricercarla a un livello più profondo.
I Greci parlavano di hybris, ed è termine che contiene l’arroganza, la prepotenza, l’insolenza, il credersi onnipotenti. In Genesi lo stesso concetto è raccontato in forma poetica con la bellissima storia di alberi, mele e serpenti. Il “peccato originale” è sempre lo stesso: la voracità, il voler evadere dai propri limiti, il non accontentarsi del giusto .
La crisi nasce da questo insensato egocentrismo, dalla tentazione di avere tutto, subito e senza fatica. E questo “peccato” è di tutti, non possiamo scaricare ogni colpa su banchieri, manager e politici.
Non è solo una crisi economica, è anche e soprattutto una crisi culturale, esistenziale e di valori. E’ il crollo di un modello che ci è stato proposto e imposto e che, chi più chi meno coscientemente, abbiamo accettato e fatto nostro. Un sistema economico basato sulla folle rincorsa di domanda e offerta, in una perversa spirale di crescita dissennata.
Un’economia in cui si rincorrono parametri che sono falsi obiettivi (il PIL, il reddito netto procapite) incapaci di fotografare il reale benessere della persona.
Il terremoto in Abruzzo, con i suoi trecento morti e il terribile dramma dei sopravvissuti, farà aumentare il PIL, indicatore che risente positivamente anche di alluvioni, incidenti stradali e disastri vari con conseguenti eterne ricostruzioni. Non occorre aspirare al Nobel per l’Economia, emulando l’ineffabile ministro Brunetta, per capire che ci deve essere qualcosa di profondamente sbagliato nell’idolatrare un simile parametro e nel porlo come obiettivo supremo degli sforzi collettivi della nazione.
Come pure non occorre essere Einstein per immaginare che, in un sistema limitato come quello del pianeta terra, una crescita illimitata sia fisicamente impossibile.
Eppure, tutti gli sforzi economici mondiali, negli ultimi anni, sono andati in questa precisa direzione: la crescita ad ogni costo del prodotto interno lordo.
I problemi attuali sono anche la dimostrazione che stavamo procedendo su una strada sbagliata e suicida. In questo senso possono avere la funzione positiva di un campanello d’allarme.
La crisi nasce da un modello economico che mette al centro di tutto il mercato, eretto a signore e padrone assoluto di ogni sfera dell’umano. Un mercato che acquisisce le sembianze di una divinità rigorosamente monoteista, capace di autoregolarsi, intollerante di ogni intrusione e limitazione e soprattutto, possessiva e gelosa nei confronti dei suoi sudditi.
Un mercato che, come un cancro, ha invaso ogni spazio, scacciando ogni altra forma di relazione, monetizzando ogni rapporto (compreso quello fra figli e genitori), facendo sparire il concetto di bene comune, di bene pubblico, di dono, di scambio, di gratuità.
Un mercato che, come un fiume in piena, è uscito dai suoi giusti limiti e ha spazzato via il nostro tempo, il nostro spazio, le nostre relazioni, le nostre sicurezze, le nostre prospettive per il futuro.
Se le cause sono profonde e ramificate, i rimedi non possono essere superficiali e facili. Non esistono bacchette magiche, dobbiamo diffidare da chi promette ricette miracolose.
Non ci salveranno i trucchetti contabili dei governi, la manovra dei tassi di sconto, i G8, i G20.
Fra l’altro, chi ha seguito con un po’ di attenzione le recenti vicende, non può non notare come i rimedi proposti siano esattamente identici alle cause che hanno generato il male.
Il che, come sistema terapeutico, è per lo meno curioso.
Alla base della crisi c’è la cultura del debito, del compri oggi paghi in un lontano domani, l’illusione del tutto e subito, la trappola della ricchezza facile. Rimedi proposti e attuati: abbassare il tasso di sconto, denaro a pioggia e incentivi alla domanda. E il geniale consiglio di continuare a spendere senza farsi troppi problemi.
Un po’ come voler spegnere un incendio con la benzina. O come un medico che consigli di curare l’alcolismo con grappa e barbera o prescriva a un obeso una dieta di carboidrati e grassi idrogenati.
L’impressione, davanti ai salvataggi miliardari di alcune istituzioni finanziarie e all’affossamento di altre, alle dichiarazioni contrastanti dei governatori delle banche centrali, alle facce sorridenti dei venti potenti che si sono ritrovati per passare un week end di foto, shopping e parole a Londra, è di interventi dettati più dal panico e dall’improvvisazione che da una strategia capace di traghettarci fuori dalle secche di una crisi epocale.
Ho collezionato fin ora note negative, aggiungendo pennellate sempre più scure a un quadro a tinte fosche. Ero partito dalla lunghezza dell’inverno e dai ritmi stanchi del pianeta. La primavera che in questi giorni sta esplodendo, i mille colori del prato, il canto gioioso degli uccelli ci ricordano, però, che a qualsiasi inverno segue sempre il risveglio della natura. Per quanta neve cada, il bianco dei ciliegi fioriti avrà sempre la meglio su quello del manto invernale e farà da apripista al verde delle nuove foglie e dell’erba. Per i credenti, questo è tempo della Pasqua di resurrezione, a ricordare che al dramma della morte segue la pienezza della vita.
La crisi è una formidabile opportunità di “cambiare mente” (il significato letterale della parola greca che noi traduciamo con “convertirsi” e che non riguarda solo l’ambito religioso).
Ripensare alla scala di valori che regola le nostre scelte.
Riappropriarsi degli spazi che una visione totalizzante del mercato ha sottratto alle nostre vite.
Ritrovare il tempo per sé e per gli altri.
Collocare la finanza nei suoi corretti confini, facendola ridiventare serva e non padrona dell’economia reale.
Ridistribuire la ricchezza in modo da eliminare gli assurdi squilibri di reddito e patrimonio, vera causa di molti dei mali, delle insicurezze e delle guerre, consapevoli che finchè non ci sarà giustizia non potrà esserci pace.
Creare valore con il lavoro e non con alchimie finanziarie.
Smetterla di credere alla favoletta di un mercato capace di controllarsi e regolarsi da solo e pretendere serietà e competenza dagli enti preposti alla sorveglianza.
Smettere di rincorrere obiettivi falsi e sbagliati, come la crescita infinita del prodotto interno lordo.
Capire che merci e beni non sono affatto sinonimi e che la vera ricchezza non si misura in quantità di moneta.
Rimedi difficili, teorici, fuori dalla nostra portata? Niente affatto!
Basta essere consapevoli della forza tremenda delle piccole cose quotidiane quando diventano patrimonio condiviso da molti.
Bere acqua del rubinetto, invece della minerale. Preferire la bici all’auto negli spostamenti di ogni giorno. Considerare bestemmia la parola “rottamazione”. Pretendere di acquistare oggetti che siano riparabili, abbiano lunga durata e non siano programmati per essere obsoleti e invecchiare in breve tempo.
Considerare sacro il suolo e pretendere dagli amministratori il rispetto assoluto del territorio contro l’invasione di capannoni, megarotonde e sempre nuove strade. Diffidare di chi propone “grandi opere” e richiedere piuttosto di non trascurare l’ordinaria manutenzione di quelle esistenti. Consumare prodotti locali e di stagione. Ricordarsi che è preferibile l’alta puntualità ad ogni alta velocità e che chi pretende di muoversi troppo in fretta sottrae tempo e spazio a tutti gli altri.
Rimedi puerili, quelli che ho appena elencato? Utopie lontane dal concreto mondo dell’economia?
Può darsi.
Però hanno almeno il pregio di andare nella direzione opposta a quella delle cause che hanno provocato il disastro. E poi, forse è più concreto e più economico zappare l’orto e seminare insalate, piuttosto che parlare di prodotti derivati, di swap e di flottante.
Mi consola constatare che la pensa così anche Amartya Sen, premio Nobel per l’economia 1998: “Una crisi non rappresenta solo una sfida cui si deve far fronte. Essa offe anche l’opportunità di impegnarsi a risolvere problemi a lungo termine … Ecco perché la crisi attuale ci fa capire l’importanza di occuparsi di questioni trascurate come la conservazione dell’ambiente e il sistema sanitario nazionale, ma anche la necessità di sviluppare il trasporto pubblico…”.
E un altro Nobel per la stessa disciplina ha di recente profetizzato: “Si troverà un nuovo equilibrio, ma non più al livello di prima, bisogna essere capaci di vivere a un livello più basso” .
Sembrano parole di Maurizio Pallante o di Serge Latouche, i profeti della decrescita. Invece è John Nash, il genio matematico inventore della teoria dei giochi. Quello che un film di successo ha etichettato come “a beautiful mind”, una bella testa pensante.
Meglio fidarsi di lui piuttosto che di chi dice che il peggio è alle spalle e che per risolvere i problemi basta chiudere gli occhi e continuare a comprare.

Scritto aprile 2009, pubblicato su La Guida del 17 aprile 2009