Le scatole vuote delle religioni.

Santo Stefano, il giorno dopo Natale. Te ne accorgi dai cassonetti pieni che traboccano polistirolo e confezioni di tristi giocattoli tecnologici. Scatole vuote, simbolo del vuoto delle nostra civiltà attuale, in cui l’amore per i bambini si misura con la dimensione dei pacchetti che incartano i regali e con la lunghezza dello scontrino fiscale del supermercato.
Nell’ultimo scritto affidato alla pazienza degli amici che leggono il Granello avevo usato proprio questa immagine riferita alle religioni: “le scatole vuote delle religioni”…
…Il testo era una divagazione sull’avverbio “quando”, un giochetto di parole senza pretese che avevo allegato ad un altro articolo, dai toni forse eccessivi, che non è stato pubblicato. Riferendomi a Dio, scrivevo:“Quando avrò smesso di cercarlo nelle scatole vuote delle religioni…”.
Nella pagina pubblicata, Dio è rimasto, ma le scatole vuote sono sparite.
Forse qualcuno ha pensato, vedendole abbandonate in giro, di gettarle direttamente nel cassonetto, risparmiandomi la fatica della raccolta differenziata e l’imbarazzo di decidere se le religioni usate siano materiale riciclabile o meno. Forse paragonare la Religione, (quella con la R maiuscola, cioè la nostra, non una qualunque) con un contenitore ingombrante o un vuoto a perdere può esser sembrato irriverente e addirittura blasfemo.
Lo dico sorridendo, senza nessuna vena polemica (precisazione necessaria, visto che la pagina scritta non comunica sguardi e toni di voce e le parole su carta possono tradire le intenzioni di chi scrive o ingannare chi legge). Doppiamente necessaria nel caso mio, capace di scrivere solo di getto, senza troppi filtri mentali e con accenti, sovente, eccessivi. Chi mi conosce sa che sono in fondo inoffensivo e scuote bonariamente la testa quando mi succede di farmi trasportare dal flusso delle parole. Ho detto più volte a Sergio (mio referente della redazione del Granello, per motivi di vicinanza geografica, ma, soprattutto, per la sua pazienza e per l’inossidabile amicizia) di intervenire con potature e sfrondamenti sui miei scritti. Non ho poi nessuna remora sul fatto che un articolo sia o meno pubblicato: questa reciproca libertà è la base del rapporto con ogni giornale a cui mi capita di collaborare. Io libero di scrivere quel che penso, la redazione di usarlo o cestinarlo, senza scalfire stima e amicizia.
Ma ci tengo a rimettere al loro posto le “scatole vuote” in cui avevo infilato le religioni. Non per puntiglio, né per difesa del mio testo (uno scritto, per me, esaurisce la sua funzione col punto finale e da quel momento cessa di essere mio).
Solo per chiarezza e per la testardaggine con cui dobbiamo tutti essere servi della verità. Se avrete la pazienza di leggere fino in fondo queste mie divagazioni, forse vi sarà più chiara la mia insistenza su un particolare all’apparenza insignificante.
Dieci anni fa mi capitava di scrivere il mio primo racconto lungo, un resoconto fantasioso di un viaggio reale a Santiago. Nelle prime pagine descrivo l’incontro con un vecchio ciclista che mi accompagna per un tratto e con cui scambio parole e pensieri. A un certo punto mi dice: “Non vale la pena di vivere senza una fede…ma attento alla religione, a tutte le religioni. Hanno la stessa radice etimologica del verbo “legare”. La fede ti libera, la religione ti lega”.
Una frase semplice, di poco spessore culturale e filosofico, ma che non rinnego affatto. Fra le tante cavolate che mi è capitato di scrivere, è una di quelle che più mi appartiene.
Ho passato cinque anni in Seminario, da ragazzo, dalla quinta elementare alla quarta ginnasio. Erano tempi in cui l’imponente edificio stretto fra mercato e foro boario assomigliava molto a un’istituzione totale, uno dei tanti universi chiusi in cui allignano frustrazioni e prepotenze, quando non perversioni. In fila per due, silenzio imposto, overdose quotidiana di preghiere, distacco totale dagli amici del paese (per non parlare dell’universo femminile, rappresentato in quel luogo da un paio di vecchie suore nere relegate nei sotterranei che fungevano da refettorio). Scappando da là e chiudendomi alle spalle il pesante portone di via Amedeo Rossi (cosa non facile, visto che per anni il lavaggio quotidiano dei nostri giovani cervelli era inteso a farti credere che eri predestinato a una vocazione sacerdotale che sarebbe stato sacrilego tradire) ero convinto di aver gettato Dio fuori dalla mia vita, di essermi liberato per sempre dalla sua ingombrante presenza.
Avevo fatto un fascio di rosari e preghiere, giaculatorie e fioretti, divinità arcigne con rappresentanti terreni ancor meno simpatici. Impacchettato bene il tutto e buttato nella spazzatura.
Solo dopo anni ho capito, con enorme sorpresa, che nella scatola che avevo gettato non c’era Dio. C’erano le sue immagini crudeli e sbagliate, le invocazioni ripetitive, i moralismi stupidi, le regole e i divieti.
Ma Lui non c’era.
Il contenitore che avevo lasciato nel cassonetto, in fondo era vuoto.
Le scatole vuote delle religioni, appunto.
La mia adolescenza inquieta, la giovinezza fiorita negli anni magici del post sessantotto, la prima maturità con i suoi problemi e le sue speranze, hanno avuto presto nostalgia di un Dio e soprattutto di quell’incomparabile compagno di strada che è Cristo. Ho ripreso, anzi, ho continuato a leggere i Vangeli, scoprendo ogni giorno nuove profondità e dimensioni. Ho raccattato per strada briciole di fede e montagne di dubbi, mi sono sovente appoggiato alle spalle più forti di amici, maestri e compagni di viaggio.
Ma non ho mai avuto, neppure per un breve istante, alcuna nostalgia della religione. Che per me è rimasta (con tutto il rispetto per chi la pensa diversamente) un insipido, indigesto surrogato del credere, una parola che contiene in sé i germi dell’arroganza, della violenza, della sopraffazione. Un termine legato a filo doppio col potere e con tutte le sue inevitabili degradazioni.
E sto parlando di tutte le religioni, compresa quella che definiamo nostra e che riteniamo perciò vera e superiore a ogni altra. Non è necessario guardare alla storia, alle crociate e guerre sante, alle inquisizioni e ai roghi. Basta l’attualità. Bush che si svegliava (grazie a Dio possiamo usare il verbo al passato) alle cinque per recitare i Salmi e poi ordinava torture e stragi, gli israeliani che chiedono ai rabbini il permesso di trasgredire lo shabbat per bombardare Gaza, i fondamentalismi indù alla caccia di cristiani e milioni di donne prigioniere di veli e di una cattiva lettura del Corano.
Per noi che vorremmo essere cristiani c’è il rischio continuo e reale di mettere il vino nuovo della buona notizia negli otri vecchi delle consuetudini religiose. O addirittura di annullare la Parola di Dio in nome di tradizioni degli uomini, come dice Cristo in Marco, ripetendo quattro volte il concetto in poche righe per scrupolo di chiarezza.
E tutti quattro i vangeli possono essere letti come una continua, ostinata contrapposizione di un Messia dimesso contro l’autorità religiosa del tempo (di ogni tempo, compreso il nostro!). Con l’inevitabile finale drammatico.
Non è quindi la mia solita vena polemica, che mi ha fatto scrivere quella brevissima frase che può aver dato fastidio a qualcuno. Non avevo e non ho intenzioni di mancare di rispetto a nessuno. Nel vasto arcipelago delle forme con cui ogni uomo cerca di entrare in contatto con Dio c’è posto per innumerevoli manifestazioni di quest’ansia di vicinanza. Ognuna degna di considerazione.
La mia, che volevo condividere con gli amici del Granello, è una “poca fede”, una fede fragilissima, fatta di dubbi e domande senza risposta, di tentativi incerti, di passi in direzioni diverse. Una fede che non può sopportare il peso e la gabbia di una religione. Non ha neppure la dignità del sostantivo, è tutta nella forma verbale, nel tentativo di credere. Non consente riposo, non ha punti di arrivo e mi costringe al continuo movimento.
Sono un precario della fede, ho ottenuto solo un contratto atipico, senza garanzia di continuità né di rinnovo.
Ma, nonostante tutto, questo sforzo di credere è per me una consolazione, una compagnia, un incontro. E’ un cammino comunque affascinante, che mi ricorda la bellezza e la pazienza dei viaggi a piedi, con una guida scritta duemila anni fa da quattro autori eccezionali e la discreta compagnia di un Dio che sa esserti accanto senza farsi sentire e di tanti, indispensabili amici.
Come sa chi cammina a lungo, se si vuole arrivare da qualche parte, è necessario viaggiar leggeri. Non posso portarmi dietro pesi inutili.
Le scatole vuote delle religioni devo proprio lasciarle a casa.

PS. Visti i tempi che corrono, non so se questa lettera verrà resa pubblica. Nel caso, mi scuso per la lunghezza, i riferimenti personali e lo spazio rubato a questioni ben più importanti.
L’ho scritta, come dicevo, non per puntiglio, per pignoleria o, peggio, per stupido orgoglio.
L’ho scritta per egoismo.
Egoismo di lettore, non di occasionale scrivente. Perché, da lettore, tengo molto al Granello. E’ l’unica rivista che leggo subito, dalla prima riga all’ultima (tranne, naturalmente, gli eventuali miei contributi, che già conosco, nonostante il calo di memoria). Mi accompagna, mi stimola, mi fa sentire parte di una “chiesa”. Proprio come mi capita quando arrivo a Mambre. Mi sento accolto senza condizioni.
Ci tengo che il Granello sia un giornale aperto, capace di dare spazio ad idee divergenti, diverse e anche opposte a quelle della redazione. Non uno dei soliti contenitori in cui si rimescolano le proprie convinzioni di gruppo per il piacere di parlarsi addosso, in cui trovano spazio solo le voci che non stonano con il coro.
Vorrei un giornale capace di raccontare il bianco e il nero e tutte le tonalità di grigio.
Un giornale che non abbia paura delle parole e che non sia l’inutile specchio delle idee della redazione, ma il terreno fertile di un confronto di pensieri ed esperienze diverse..
Stiamo vivendo tempi terribili, in cui conquiste, esperienze, emozioni maturate e sbocciate con la fatica e le lotte di decenni vengono cancellate in pochi giorni senza apparenti reazioni. Tempi in cui, nel cinquantenario esatto della proclamazione del Concilio e alla vigilia della Giornata della Memoria il papa con un “gesto di pace” abbraccia i vescovi ordinati da Lefebvre, compreso il negazionista Williamson, e riesce in un colpo solo a dichiarare chiusa l’esperienza conciliare, a schiaffeggiare gli ebrei, e a cacciare sempre di più la Chiesa nel vicolo cieco della restaurazione.
Tempi in cui i porporati fanno campagna elettorale per Berlusconi, se la prendono con chi prega il suo Dio dal sagrato delle “loro” chiese, perseguitano i moribondi e usano vocabolari ristretti, in cui non hanno spazio alcuno le parole evangeliche: vita, amore, misericordia, gioia, spirito, libertà ed abbondano invece termini coercitivi e toni cupi.
Mi pare sia obbligo per tutti noi raccogliere l’invito che Dio fa in sogno a Paolo: “Non temere, ma continua a parlare e non tacere” (Atti, 18,9) e credo che queste parole possano essere anche un buon motto programmatico per un giornale come il nostro Granello.
Un abbraccio,
lele

Scritto e pubblicato sul Granello di senape del febbraio 2009