Vacanze a piedi.

Nella mia esperienza personale, le vacanze in assoluto più appaganti e rilassanti sono sempre state quelle fatte a piedi o in bicicletta, in autosufficienza e per periodi superiori alla settimana.
Vacanza è una parola che abbiamo preso dal latino “vacatio”, ad indicare uno spazio vuoto, libero dagli impegni che restringono e riempiono le nostre giornate. Ma questo vuoto non si crea automaticamente. Non basta “essere in ferie” per far vacanza…
…Anzi, a volte ci sforziamo di riempire le nostre giornate festive con tante di quelle attività da occupare ogni istante, trasformandoci in forzati del divertimento.
Muoversi a piedi nella natura per diversi giorni consecutivi crea il vuoto nella nostra testa sempre troppo piena e genera la vera “vacanza”
Camminare è un gesto naturale che la civiltà dei motori e della fretta sta cancellando dal nostro DNA. L’uomo, prima cacciatore-raccoglitore, poi pastore nomade ha scritto nel suo codice genetico il bisogno innato di spostarsi.. Prima di essere “sapiens” l’homo è stato “faber” e “viator”, ha costruito la sua intelligenza con lo sforzo di mani e di piedi
Ma è differente camminare per la classica gita di un giorno e camminare per molti giorni consecutivi. Il verbo è lo stesso, ma gli effetti sono completamente diversi. In giornata, il movimento delle gambe è sempre compreso, quasi messo fra parentesi, fra due spostamenti in automobile, sovente di lunghezza molto maggiore rispetto al percorso a piedi. Più pneumatici che scarponi, più idrocarburi che forza muscolare.
La sequenza è più o meno questa: sveglia-colazione-auto-andata-pranzo-ritorno-auto. I chilometri chiusi nella scatola metallica sono in genere molti più di quelli fatti con le proprie gambe. Al beneficio del movimento attivo dobbiamo sottrarre il costo e i danni del trasporto passivo e non sempre i conti tornano e il bilancio finale è positivo.
Soprattutto, alla fine della giornata ci troviamo al punto di partenza.
Ci siamo spostati, ma non abbiamo fatto nessun “viaggio”. Dal punto di vista fisico e talvolta anche mentale, si può dire che abbiamo girato a vuoto, pur con notevole consumo di energia e fatica.
La sensazione che si prova, invece, nel compiere giorno dopo giorno un itinerario lineare è bellissima e appagante. Si vedono cose nuove, inaspettate, cambiano i paesaggi, le architetture, la gente. Ci si riappropria dello spazio e, di conseguenza, (Einstein insegna) del tempo. Perché lo spostarsi in fretta, a velocità innaturali per l’uomo, ha di fatto cancellato proprio lo spazio, riducendo qualsiasi viaggio a due punti, la partenza e l’arrivo, da unire nel minor tempo possibile. I piedi, con la loro saggia lentezza, ce lo restituiscono, ce lo fanno guadagnare al ritmo della sua unità di misura, quel metro che non è poi così diverso dal passo dell’uomo.
Nel cammino di quest’anno, nella Francia centrale, abbiamo intravisto i Pirenei lontanissimi sullo sfondo di pianure e colline, in uno dei rari squarci di sereno di questa primavera bagnata. Dopo una settimana di marcia sono riapparsi per un attimo, ingranditi come per la magia di uno zoom fotografico. Dopo un’altra settimana erano talmente vicini da esser scomparsi dalla vista: toccava ai piedi farne esperienza, al naso sentirne gli odori.
Questo avvicinamento lento e graduale, frutto di migliaia di passi, è quello che meno si discosta da quel brutto termine che infarcisce la letteratura di montagna: “conquista”. Sostantivo che sa di militarismo e violenza e mal si addice a qualsiasi tentativo umano di confrontarsi con la natura. L’uomo ha nei confronti del mondo che lo ospita l’obbligo dell’umiltà e della riconoscenza. E’ ospite temporaneo a cui sono vietati atteggiamenti di superbia o arroganza. In montagna non si conquista un bel nulla, tanto meno la cima o la meta, che è solo un punto di svolta obbligata, un dietrofront necessario. Ma camminare per giorni e giorni verso qualcosa, anche se non ci autorizza a crederci “conquistatori”, ci dà la sensazione di star facendo la cosa giusta, di guadagnarci la meta con mezzi onesti. In un’epoca di cibi precotti, di fretta esistenziale, di tutto e subito, l’ostinazione del camminare ci restituisce il piacere della pazienza e la soddisfazione di aver realizzato qualcosa. In questo senso, possiamo dire allora di aver “conquistato” la meta, non con lo spreco dissennato di combustibili fossili, non con la falsa ebbrezza della velocità, ma con il rosario di passi ripetuti, con la testardaggine del mettere un piede davanti all’altro.
Spostarsi a piedi è semplice. Ma “semplice” non è mai sinonimo di facile. Si incaricherà la strada di farci capire la sottile differenza fra i due termini che sovente usiamo a casaccio, credendoli sinonimi. Bolle, vesciche, tendiniti, talloniti, unghie nere e incarnate sono il pedaggio da pagare per questa comprensione. Oltre naturalmente al sudore, agli insetti, al caldo e al freddo, alla pioggia e al sole, alla polvere e ai contrattempi. Piccoli guai, che arrivati alla meta tendiamo a minimizzare, ma che si dilatano nelle lunghe ore di marcia fino ad occupare tutto il nostro orizzonte sensibile. Perché ogni viaggio “dopo” è sempre bellissimo. E’ il “durante” che sovente può essere duro e difficile. Basta una minima vescica sul calcagno, o l’unghia del mignolo incarnita a cancellare qualsiasi panorama, a togliere ogni poesia al paesaggio più spettacolare. Oppure basta una primavera piovosa come l’ultima, un susseguirsi di giornate grigie e umide che ci hanno regalato quattrocento chilometri di “pauta”. E io che pensavo, dopo cinquant’anni di passeggiate di conoscere il significato vero di questa parolina piemontese, ho dovuto ricredermi. Le colline argillose dell’ovest francese gonfie di un mese di pioggia me l’hanno spiegato, con le salite che avrebbero richiesto corde fisse, le discese più scivolose di un canalino ghiacciato, i pezzi piani trasformati in sabbie mobili, gli scarponi che affondavano e si caricavano ad ogni passo di chili di terra. Aggiungendo zavorra a quella trasportata in spalla, sacco a pelo e vestiario, viveri e bevande.
Lo zaino, come ben sa chi l’ha provato, ha un peso che cresce in proporzione diretta con la distanza percorsa e col numero dei giorni di camminata. I sette-otto chili che all’inizio sembrano una piuma, già alla seconda tappa diventano stranamente pesanti e a fine settimana fanno l’effetto devastante di un basto d’animale da soma. E’ la prova che la relatività di Eistein ha sovente la meglio sulla gravitazione di Newton. Viaggiare leggeri, cosa consigliabile anche per il cicloturista, diventa un imperativo categorico per chi si muove a piedi. Le borse da bici poggiano sull’acciaio o sull’alluminio del telaio; lo zaino carica vertebre e dischi, già resi precari dalla pretesa della nostra specie di ostinarsi nella posizione eretta.
Zaini piccoli, quindi, e carichi leggeri. E’ una buona scuola di semplificazione, che ci aiuta a separare il necessario dal superfluo, ci fa capire la distanza fra l’abbastanza e il troppo. Anche questo fa parte della “vacanza”, dello svuotamento progressivo delle nostre vite troppo piene. E’ il processo contrario di quello dell’accumulo, che sembra caratterizzare la nostra epoca.
Ed è stupefacente rendersi conto di quanto poco sia realmente indispensabile alla nostra vita e al viaggio.
Oggi, finalmente, qualcuno anche fra gli studiosi e gli intellettuali (che in genere arrivano sempre per ultimi, ripetendo come fossero grosse novità cose che la gente comune pratica da anni…) inizia a rendersi conto che la crescita continua (dell’economia, del PIL, del nostro stile di vita, di qualsiasi cosa) è un’aberrazione che porta inevitabilmente l’ambiente al collasso, la civiltà al suicidio e le nazioni alla guerra. Uno studioso illuminato ha proposto la salutare ricetta della “decrescita felice”. Andare a piedi portandosi sulle spalle tutto il necessario è un’ottima scuola per questa nuova disciplina e ci fa provare con mano che c’è un rapporto inverso fra felicità e possesso, fra pace interiore e accumulo di beni materiali.
Forse è proprio questa la lezione più importante e duratura che ci rimane dopo un paio di settimane di sana camminata.

Il Gr 65 è un percorso di grand randonnée che attraversa la parte centrale della Francia da est a ovest arrivando fino ai Pirenei e al confine spagnolo. E’ uno dei più conosciuti e godibili fra i diversi GR tracciati sul suolo francese e coincide con uno dei tanti cammini che vanno verso Santiago. Anche per questo è frequentato da gente di ogni nazionalità e permette incontri vari e piacevoli, senza l’affollamento e gli inconveniente del tratto classico in Spagna. La parte più interessante è la prima, sia per paesaggi (l’Auvergne, i monti dell’Aubrac, les causses) sia per le splendide architetture e i villaggi deliziosi che si attraversano. L’inizio della primavera è la stagione migliore per affrontarlo (ma il mese di maggio è anche quello in cui c’è il maggior afflusso di viandanti, con rischio di tutto esaurito nei gites d’étape.)
Germana ed io l’abbiamo affrontato in due tranches, facendo il tratto iniziale (Le Puy-Conques-Cahors) nell’aprile 2007 e completandolo questa primavera fino al confine spagnolo. In tutto sono circa ottocento chilometri.
La parte centrale della Francia è bella ed accogliente, il Gr è ben segnalato e le sistemazioni logistiche economiche e gradevoli. Quasi tutti i gites d’étape sono dotati di cucina attrezzata ed è possibile organizzarsi il pasto serale, magari in società con altri viandanti, con notevole risparmio.
E, cosa non trascurabile, camminando verso ovest si sperimenta la piacevole sensazione di mettere una distanza di sicurezza da questa triste Italia dei divieti e delle multe, dell’igienismo idiota e delle tasse occulte, delle rottamazioni forzate e dei bollini di ogni colore. Un “Bel paese” che ha coperto tutto di asfalto e cemento, ha seminato a spaglio orrendi capannoni e che riesce a rendere complicate anche le cose più semplici.
Come camminare, appunto, nella natura…

Se qualcuno avesse voglia di farsi la passeggiata sono lieto di dare indicazioni più precise e pratiche. (lelonis@libero.it oppure www.leleviola.it; telefono 0171 687173.)

Scritto il 14 settembre 2008, pubblicato su La Ciapera del dicembre 2008