Primo giorno di scuola

Primo giorno di scuola. Per me non è una gran novità, sono quarantasette anni malcontati che il rito si ripete senza interruzioni, prima da una parte della barricata, poi dall’altra. I saluti coi colleghi, le facce abbronzate, baci e strette di mano, il piacere di rivedere gli allievi cresciuti, qualche volta cambiati, l’incontro con le nuove classi…
Alunno e insegnante: in fondo un unico mestiere, si tratta sempre di imparare e condividere quello che si è appreso, un gioco di dare e avere reciproco, un travaso di esperienze e conoscenze. Un bellissimo lavoro, o se proprio vogliamo essere pignoli e tener distinte le due facce della medaglia, due splendide attività che hanno molto in comune. Imparare e insegnare, due verbi che sono intrecciati fra loro e che non dovrebbero mai assumere il colore grigio della cosa dovuta, del dovere imposto, ma piuttosto avere la faccia distesa del piacere e della soddisfazione (che non è il contrario di fatica e impegno, anzi sovente ne è sinonimo e conseguenza).
Ma come tutte le cose bellissime, anche la scuola è un giocattolo molto delicato e si può rompere facilmente, trasformando il paradiso del sapere e della conoscenza in un inferno di tensioni, frustrazioni, paure, noia. Fino ad arrivare agli estremi della violenza, del bullismo, dell’esasperazione. In decenni di vita ritmata dal suono del campanello (che assume, col tempo, tonalità simili a quelle della sirena di una fabbrica) ho visto migliaia di ragazzi crescere, maturare, rafforzarsi. Ma ho anche visto moltissimi casi in cui la scuola, invece di cultura e serenità, ha prodotto ansie, angosce, insicurezza, disperazione, esaurimenti, fino a rovinare del tutto l’esistenza. E non solo fra gli allievi, anche fra noi insegnanti, fra il personale, fra i dirigenti.
Lo spartiacque fra la più gratificante delle attività umane e la più frustrante delle occupazioni è molto sottile. Riuscire a camminare sullo stretto crinale di una scuola seria ma serena, rispettosa ma efficace, aperta alle novità ma attenta alle radici non è cosa facile e non può essere imposto da leggi o decreti. Non ha nulla a che vedere con grembiuli e voti di condotta, giudizi in cifre o parole, debiti o crediti.
Dipende da tutti noi, dall’entusiasmo, dalla buona disposizione con cui ciascuno fa la parte che gli compete.
Dipende dai ragazzi, dalla consapevolezza che nulla di realmente soddisfacente si può ottenere senza scambiarlo con la moneta dell’impegno e che un giusto sforzo può essere sinonimo di gioia e non di noia.
Dipende da noi insegnanti, che dovremmo avere buona memoria degli anni in cui eravamo nei banchi, essere sostenibili e precisi nelle richieste, non confondere autoritarismo con autorevolezza.
Dipende dai genitori, che dovrebbero essere presenti ma non invadenti, attenti ma non assillanti.
Dipende, anche, da chi tiene in mano il timone e dirige la complicatissima macchina dell’istruzione pubblica. Che, come capita sovente in questa nostra strana Italia, è una faccia nuova, senza grande esperienza didattica. Una signora giovane, telegenica e decisionista, laureata in legge, che ha dichiarato – per scritto – che la scuola italiana è un’automobile col motore rotto e si accinge a smontarne i pezzi per vedere in qualche modo di rimetterla in moto. Come cittadino e parte in causa, le faccio i migliori auguri. Come ex apprendista meccanico (estate dell’anno scolastico 71-72, stipendio netto di mille lire al giorno) non posso che far gli scongiuri.
Soprattutto tenendo conto che, dietro ogni sua decisione, si intravede l’ombra lunga del ministro dell’Economia attento a chiudere sempre più i cordoni della borsa. Alla faccia del buon Keynes che insegna (e il caso Fiat ne è recente conferma) che un’azienda in crisi si salva con oculati investimenti e non con tagli indiscriminati.
E non posso scacciare l’impressione che, con attenta regia, si buttino sul piatto dell’opinione pubblica cambiamenti di nessuna importanza pratica ma di forte presa mediatica (il grembiule, il cinque di condotta) per sviare l’attenzione da provvedimenti disastrosi e di fortissimo impatto (l’accorpamento e la sparizione delle piccole scuole, la fortissima diminuzione di organico, classi così numerose da essere ingestibili e via dicendo).
Non riesco neppure a non essere perplesso di fronte a questa Italia che mi impone di rivolgermi a un tecnico abilitato per pulire la caldaia o sostituire una presa rotta mentre affida ministeri importanti a persone senza provata esperienza nel settore di cui si occuperanno.
Dalla mia passata esperienza di lavoro estivo in officina ho ricavato pochi soldi e scarse competenze pratiche. Una cosa però l’ho capita bene e mi sento di farne parte alla signora ministro, vista la sua propensione per gli esempi di natura meccanica: smontare un motore è molto più facile che rimontarlo correttamente.

Cervasca, 30 agosto 08

Pubblicata su La Guida del 5 settembre 08, editoriale col titolo: “Il motore rotto della scuola”.