Camminare sotto la pioggia

Camminare sotto la pioggia ha i suoi lati piacevoli, per la prima mezz’ora.
Dopo quattro giorni cominciano a prevalere gli aspetti più fastidiosi, tipo il rivolo d’acqua che si ostina a scorrere dal collo alla schiena, gli occhiali appannati che velano di nebbia il mondo circostante, gli scarponi in cui paiono nuotare i girini…
Ma l’acqua che viene dall’alto non è nulla in confronto a quella che sembra sorgere dal terreno, diventato una falda freatica a cielo aperto. L’argilla dei sentieri di collina trasforma le discese in micidiali scivoli, le salite in arrampicate estreme e i tratti pianeggianti in sabbie mobili in cui si rischia di sparire affondando fino a mezza gamba.
Il momento dell’arrivo nel rifugio, nel tardo pomeriggio, diventa un attimo di beatitudine estrema, paragonabile al rientro in porto dei naviganti dopo la tempesta.
Togliersi la giacca bagnata, posare finalmente lo zaino, slacciare gli scarponi.
Jean Michel, il gestore del gite d’étape, ex pellegrino trasformatosi in “hospitalero”, è simpatico e pieno di attenzioni. Mette a scaldare dell’acqua per una tisana, aggiunge legna nel caminetto, ci porge dei vecchi giornali per asciugare l’interno delle scarpe. Mi godo il tepore, l’amicizia, il rilassamento. Distrattamente appallottolo i fogli di carta e li introduco nelle scarpe mentre continuo a parlare con lui. Di colpo lo sguardo cade sulle parole scritte sulla pagina che sto stropicciando: “Berlusconi stravince le elezioni in Italia, sparisce la sinistra”.
Per un attimo mi sembra di essere ritornato all’esterno, sotto la pioggia battente: rabbrividisco. Jean Michel mi fissa incuriosito per la mia interruzione. Gli faccio vedere il titolo in francese. Mi guarda con aria sconsolata e commenta: “C’est bien triste”. Gli fanno eco, come unendosi a doverose condoglianze, due svizzeri e una coppia di belgi.
Non è servito a molto, dunque, ritardare la partenza per compiere il dovere elettorale, perdendo due settimane di primavera e di scarso affollamento, le più godibili su questo tratto del Camino Podiensis.
Appena introdotte le nostre (inutili) schede nelle urne, Germana ed io siamo partiti. In treno fino a Cahors, punto d’arrivo della tappa precedente. Poi a piedi sul magnifico GR 65, sentiero che ripercorre la via tracciata, molto prima dell’anno mille, dal vescovo di Le Puy, Godescalco, uno dei primi ad avventurarsi sulle tracce dell’apostolo Giacomo.
Durante le tappe iniziali non avevo neppure avuto la curiosità di informarmi sull’esito delle elezioni. Il cambiamento drastico di routine quotidiana provoca un senso di estraniamento, la vita si riduce ai piedi, più o meno doloranti, alle spalle provate dal peso dello zaino, al verde intenso dei prati alternato al giallo acceso dei campi di colza e al marrone dei seminativi. Le sensazioni cancellano i pensieri, i colori assorbiti dagli occhi, gli odori respirati con l’aria, gli stimoli del corpo occupano il posto delle idee, ne restringono gli spazi. Il cervello, già organo sottodimensionato e sottoutilizzato nella vita normale, deve lasciare spazio alla prepotenza del corpo e delle sue sensazioni: il caldo, il freddo, il dolore, la stanchezza, il benessere. Poi ci sono gli incontri con gli altri viandanti e pellegrini in una babele di lingue che impegnano mente e anima e distolgono dalle curiosità contingenti. Senza parlare della pioggia, che lava via quel residuo di attività intellettuale che fosse sopravvissuto alle vesciche ai piedi, alle notti nel sacco lenzuolo in cameroni russanti e alle cinghie dello zaino.
Fino al brusco ritorno alla realtà per via di quel foglio di giornale appallottolato. Berlusconi 4: sembra il titolo di uno di quei patetici film seriali sfornati in tutta fretta per sfruttare il successo del primo, con l’eroe di turno, il Rocky o il Rambo sempre più suonato e invecchiato che si trascina stancamente fino ai titoli di coda. Solo che non è un film scadente: è un incubo, e potrebbe rivelarsi spaventoso.
Ho ripreso a camminare, il giorno seguente, con la piacevole sensazione di allontanarmi fisicamente e mentalmente (sia pure alla modesta velocità di crociera di quattro chilometri orari) da questa mia stravagante patria, che sembra non farcela mai ad uscire dalle paludi del fascismo e del razzismo ed è pronta a cedere alle sirene tentatrici di tristi imbonitori televisivi.
Come sempre, l’atto ripetitivo del camminare ha avuto un effetto balsamico sulla mia prima impressione di rabbia e di sconforto. Col tempo e coi chilometri sono affiorati addirittura alcuni pensieri sui recenti avvenimenti. Provo a condividerli con chi ha la pazienza della lettura. Nel caso, tenete presente che sono idee che nascono sotto la pioggia, durante giornate di duro cammino e nottate di sonni disturbati.
Il popolo italiano si è espresso chiaramente, sia pure in un confronto snaturato dalla peggior legge elettorale del mondo e dal peso determinante della droga televisiva e mediatica. La democrazia è un giocattolo imperfetto, molto pericoloso in mano a chi ha il cervello sintonizzato su Grandi Fratelli, serial televisivi (o anche libri sacri letti male, come dimostra il caso dell’Iran). Resta comunque il male minore e una scelta senza alternative. Dobbiamo tenercela stretta, dunque, e accettare il verdetto delle urne.
Chi ha vinto, però, non è stata la destra.
E’ stata la paura, da una parte. E la stanchezza, dall’altra.
La nuova destra (che in Italia, purtroppo, assomiglia sempre alla vecchia destra fascista e razzista riverniciata di neoliberismo selvaggio e, a volte, anche di disonestà materiale e morale, di populismo imbecille e di disgustose colorazioni cattointegraliste ) è stata semplicemente furba e brava ad intercettare paure, ansie e disorientamento.
Che ci sono e sono reali.
La sinistra è stata sorda, incapace di percepire questo stato d’animo e di sposarlo coi propri valori di solidarietà, accoglienza e giustizia.
Siamo in un momento di grave disorientamento collettivo, il futuro è percepito come minaccioso e preoccupante (mentre dovrebbe avere il colore della promessa e della speranza). Cambiamenti troppo veloci per essere digeriti hanno interessato la nostra quotidianità[,]: da una società diventata improvvisamente multietnica, a un clima di competitività esasperata nella scuola e nel lavoro, all’insicurezza diffusa, alla piccola e grande criminalità che ci minaccia sempre più da vicino.
Certo, è una situazione globale, che interessa tutto l’occidente. Ma in Italia è resa drammatica da uno stato inesistente e da una classe politica immobile e inamovibile, percepita in modo assolutamente e uniformemente negativo.
Il risultato è la voglia di difendersi, di richiudersi nelle proprie presunte certezze, di ritornare acriticamente al passato. Oppure, Grillo docet, di mandare tutto “affanculo”, il che, oltre ad essere una parolaccia, è la premessa per la dittatura prossima ventura (non a caso, il fascismo aveva per motto l’altrettanto sguaiato “chissenefrega”).
Chi ha vinto le elezioni ha saputo far leva su questi stati d’animo (reali e sovente giustificati) e ci ha speculato sopra, trasformando le ansie in voti.
La sinistra ha perso anche perché non ha saputo immedesimarsi con la gente, capirne le giuste e sacrosante esigenze (sicurezza, legalità, semplicità) e farle proprie senza degradarle a rivendicazioni grossolane e disumane. E non parlo solo della sinistra delle solite facce, quella delle barche chilometriche, delle scarpe fatte a mano e dei gilet di cachemire, quella che ha perso per strada socialismo e comunismo e, da ultimo, ha rinunciato pure alla scomoda indicazione geografica (a quando la perdita anche di quell’ aggettivo desueto: “democratico”?). La sinistra, insomma, affarista, quella delle grandi infrastrutture e della Tav che si fa ad ogni costo, quinta colonna del liberismo e miglior alleato del capitalismo.
Parlo di noi, di quello che resta del popolo di sognatori di mondi nuovi, di utopie socialiste e di regni di Dio in terra.
Anche noi, credo, abbiamo sbagliato a restare nel recinto stretto dei nostri idealismi senza accorgerci di quel che succedeva intorno. Abbiamo sbagliato nella nostra incapacità di vedere, nella nostra ansia di catalogare in modo uguale e contrario al sentire comune.
Non abbiamo capito, tutti presi dai nostri stereotipi mentali, che i veri poveri non hanno sempre e solo la faccia dello zingaro, del baraccato, del migrante ( e che questi ultimi non sono necessariamente tutti onesti).
Possono avere quella del vicino di casa, prigioniero dei turni in fabbrica, della rata del mutuo, della frustrazione di un figlio laureato e disoccupato, della paura per i continui furti, della rabbia per l’auto da rottamare.
Proprio lui, quello che ha votato lega, illudendosi che la razza padana possa essere un antidoto alle sue paure, una risposta ai suoi bisogni.
Credo che se vuole sopravvivere (o meglio, resuscitare) la sinistra, quella vera, debba ritrovare la gente, non richiudersi in sentimenti da piccolo gregge elitario. E credo che l’incontro possa avvenire solo sul terreno del vivere quotidiano, piuttosto che sulle solite questioni ideologiche dei massimi sistemi. Dobbiamo capire e condividere ansie, paure, preoccupazioni della gente, di tutta la gente, sapendo che su un paese sfiduciato, stanco, impaurito farà sempre facile presa la parola melliflua o urlata dei vari imbonitori e venditori di recriminazioni e certezze. Soprattutto se amplificate da tre canali televisivi e da una moltitudine di settimanali e giornali.
Camminando per giorni in compagnia di francesi, canadesi, australiani, tedeschi, svizzeri, austriaci, belgi ho avuto la netta percezione del crescente divario culturale, sociale ed economico, fra la povera Italia ed il resto dell’Europa e del mondo. Siamo gli ultimi della fila, prossimi alla retrocessione nel triste campionato del terzo mondo. Per non farcelo vedere, per distrarci dalla realtà di una situazione disastrosa i burattinai ci indicano un nemico. E’ il classico meccanismo psicologico fatto per distogliere lo sguardo dai propri guai e focalizzarlo su un avversario comune, ritrovando pure una parvenza di unità. Gli incendi dei campi rom sono questa triste parodia di guerra fra poveri in cui gli ultimi si scannano con altri ancor più derelitti nell’illusione di sentirsi più importanti o, comunque, meno ultimi.
La pioggia ha continuato a cadere e noi a camminare, lentamente, con piacevole ostinazione.
Ci siamo fermati dopo 15 giorni e 400 chilometri, quasi alla frontiera spagnola. Abbiamo resistito alla tentazione di andare oltre, di gettarci nelle braccia laiche e accoglienti di Zapatero e siamo saliti su un treno diretto ad est.
Ventiquattro ore di viaggio e siamo rientrati nella nostra cara Italia, in tempo per vedere la faccia paonazza da preinfartuato del dentista-semplificatore Calderoli, i capelli a caschetto della “ministra più bella del mondo”, gli incendi dei campi Rom, il pranzo di consolazione e di assunzione di Veltroni a casa del Presidente.
Siamo tornati a casa. Ma non vuole proprio smettere di piovere.

Scritto il 18 maggio 08
Pubblicato sul Granello del luglio 2008