Una storia “di famiglia”

Una mail in inglese con allegato arrivata direttamente nella casella delle spam. La solita fregatura, penso, che ti impesta il computer con virus informatici o cerca di carpirti i dati personali per scopi disonesti. Sto per cancellarla quando vedo che ha per oggetto: “Battista Viola”. Mio padre, morto ormai da decenni, si chiamava Giovanni Battista, ma per tutti era Gianni. Solo per i miei nonni e per qualche amico d’infanzia era rimasto “Batista”, naturalmente con una t sola.
La cosa mi incuriosisce e recupero la mail dal cestino. Per fortuna, l’inglese scritto è meno ostico di quello parlato e riesco a capire il senso della lunga lettera. Mi scrive da Parigi il nipote di Aron Waintraub, ebreo che nel 1943 era riuscito a scappare dal campo di concentramento di Borgo evitando per un soffio la deportazione ad Auschwitz. Per un lungo periodo, fino alla liberazione dell’aprile 1945, era rimasto nascosto sulle montagne di Aradolo, con l’aiuto determinante del Vicario don Viale (il “prete giusto” di Nuto Revelli), di mio padre e del capostazione Vittorio Marenco.
Maurice, il nipote, a tre quarti di secolo dai tragici avvenimenti e a decenni dalla morte del nonno, ha deciso di ritrovare le tracce di questa lontana storia di famiglia ed è risalito fino a me. Alla mail allega una foto del 28 aprile 45, in cui suo nonno può finalmente sorridere libero per le strade di Borgo, assieme a mio padre, a Vittorio e ad altre persone.
La vicenda che il nipote di Aron mi riassume in poche righe non l’avevo mai sentita, ma la cosa non mi stupisce: mio padre, pur non essendo affatto avaro di parole, raccontava poco di sé, per quella sorta di pudore d’altri tempi che induceva a non mettersi mai in mostra. Ma, quando leggo il cognome Waintraub, nella mia mente si accende una lampadina e rivivo con chiarezza cinematografica una scena in tutti i più piccoli dettagli: colori, suoni, voci. Sono gli scherzi di quella che chiamiamo memoria, che col passare degli anni perde il presente e il passato prossimo, ma ci fa ritrovare all’improvviso spezzoni del nostro passato remoto, regalandoci a volte veri e propri filmati d’epoca.
Avevo dieci o dodici anni ed era il mio primo viaggio in una capitale estera. Credo fosse anche il primo viaggio di un certo respiro per la nostra famiglia. Una gita organizzata attraverso la Francia, fino a Parigi. Diversi giorni in pullman per arrivare finalmente nella Ville Lumière a vedere coi propri occhi le meraviglie di cui si era sempre solo sentito parlare: la tour Eiffel, il Louvre, Montmartre, la Senna…
Troppe cose belle in troppo poco tempo: a distanza di oltre mezzo secolo da quei giorni restano nella mia memoria appannata pochi ricordi confusi. Ma un’immagine appare ben nitida: è mio padre, ancor giovane e coi capelli scuri che chiede al portiere dell’albergo in cui siamo alloggiati una guida del telefono. Vuole cercare il numero di una persona che gli è cara, un ebreo che aveva aiutato durante gli anni bui della guerra. Ha uno strano cognome: Waintraub…
La ricerca non dà esito: non c’è nessuno con quel nome nell’annuario di Parigi. Il portiere spiega che molti utenti preferiscono non apparire sull’elenco e mio padre resta con la delusione per l’incontro mancato.
Ora, con oltre mezzo secolo di ritardo, il figlio ormai sessantenne di Batista e il nipote di Aron possono rimediare a quell’appuntamento andato a vuoto stringendosi la mano davanti alla stazione di Borgo.
Mentre do il benvenuto a Maurice, alla moglie e ai due figli, penso che la vita ha i suoi tempi, spesso molto diversi da quelli dettati dalla nostra fretta esistenziale, ma riesce comunque a ricucire i fili e a far ritrovare chi, in qualche modo, si è voluto bene. Le guerre, si sa, non finiscono con il cessate il fuoco o l’armistizio: l’odio e il risentimento proiettano ombre lunghe che continuano per anni a devastare i rapporti e rovinare le vite. Ma i piccoli grandi gesti concreti di aiuto e le amicizie nate nei tempi tragici hanno una capacità di sopravvivenza molto maggiore e riescono sempre a riemergere, anche a distanza di decenni. Il bene è spesso una brezza sottile, che passa inosservata in mezzo ai venti tempestosi della storia, ma non perde mai vigore ed efficacia. Certo, il male sa essere, a volte, molto più forte nell’immediato, ma alla lunga non la spunta contro l’ostinazione dei piccoli gesti ripetuti di amicizia e di cura. E, prima o poi, le cose buone fatte trovano la via per tornare a galla.
D’altra parte, se come ci rassicura l’evangelista Matteo, non andrà perso neppure il dono di un bicchier d’acqua, mi pare scontato che questa storia di dedizione e coraggio non andasse smarrita. Adesso fatichiamo a rendercene conto, ma nascondere e aiutare per mesi, con in mezzo due lunghi inverni, persone ricercate era in quegli anni pericoloso, oneroso e difficile. Le lapidi dei fucilati e i ruderi delle case incendiate ci ricordano che anche ad Aradolo, frazione montana allora collegata con una mulattiera, era arrivata la furia di nazisti e fascisti.
Con mio fratello, Maurice, moglie e figli siamo andati a fare una passeggiata sul posto: volevano vedere i ruderi di tetto Vigna, in cui il nonno si era nascosto. Un piccolo pellegrinaggio laico per riannodare i fili della memoria e mettere insieme le immagini del presente con le foto ormai sbiadite del passato.
Una piccola storia “di famiglia” che mi fa piacere condividere anche perché arriva proprio a pochi giorni dalla ventesima edizione di “Attraverso la memoria” una manifestazione che cerca di mantenere vivo il ricordo di quei fatti tragici, non solo per onorare le vittime, ma soprattutto per metterci tutti in guardia dal rischio di ricadute. Il razzismo e il fascismo sono come quei batteri cattivi resistenti agli antibiotici che si riaffacciano con insistenza e con forme sempre diverse. Non esistono vaccini e non si può mai abbassare la guardia.
Le storie, a volte, vengono a cercarti quando meno te lo aspetti. Ti regalano il piacere di un incontro inatteso e ti obbligano a condividerne le emozioni. Devi trasmettere quello che hai ricevuto, non puoi tenerlo per te, chiuderlo nella scatola dei ricordi.
Perché le storie, anche quelle “di famiglia”, vivono solo se raccontate.

Cervasca, 7 settembre 018 Pubblicato su La Guida del 13 settembre 018