Pagati per essere cittadini

Se lo avessero raccontato a mio nonno (o anche solo a mio padre), si sarebbe fatto una bella risata scuotendo la testa, come chi sente una storiella troppo assurda per essere verosimile. Reddito di cittadinanza: lo stato che, anziché prenderli dalle tue tasche, come è sempre successo, ti regala un sacco di soldi. Senza contropartite, senza dover far nulla, almeno nella versione preelettorale. Anzi, proprio a condizione che tu non faccia nulla: che non abbia altre fonti di reddito da lavoro (alla luce del sole), da capitali risparmiati e non occultati, da investimenti frutto di passate fatiche.
Un premio ai nullafacenti (veri) e ai nullatenenti (dichiarati), un incentivo alla pigrizia e alla rassegnazione, l’ennesimo affronto a chi lavora, in condizioni sempre più stressanti e faticose, e si vedrà appioppare sul groppone ulteriori carichi fiscali e nuove fregature finalizzate a coprire i buchi di bilancio creati dalle promesse elettorali. E un’offesa anche a chi il lavoro si ostina a cercarlo, fra sforzi e frustrazioni, senza riuscire a trovarlo. Perché, a meno di non credere alle favole o alle dichiarazioni di Di Maio (che in un recente comizio in Sicilia ha spiegato che i soldi per il reddito di cittadinanza “li prenderemo dall’ Europa”) è realistico pensare che i costi del baratto elettorale ricadranno, come sempre, sulle spalle dei contribuenti. E siccome in Italia, a differenza di molti altri stati, la maggior fetta di imposte colpisce proprio il lavoro, peseranno soprattutto sui lavoratori.
Abbinare reddito di cittadinanza e flat tax (che taglia le aliquote elevate e fa risparmiare un sacco di imposte ai più ricchi) significa scaricare un peso insostenibile sui già tartassati redditi medio-bassi. Significa anche incrementare ulteriormente il debito pubblico, facendo pagare a figli e nipoti le follie dei nonni.
E, nonostante le apparenze, non si tratta di vero aiuto alle fasce deboli e neppure di welfare. Muhammad Yunus, ideatore del microcredito e premio Nobel per la pace nel 2006, ha condannato senza mezzi termini il reddito di cittadinanza che “rende più poveri e nega dignità”. Compito delle autorità, secondo l’economista e banchiere bengalese, è creare le opportunità di lavoro, non regalare “salari sganciati dalla produzione che per definizione fanno dell’uomo un essere improduttivo, un povero vero”.
Mi pare che quest’ultima osservazione centri il nocciolo della questione. È davvero povero chi spreca la sua vita, chi non realizza le sue potenzialità, chi non approfitta dell’esistenza per crescere, donare e ricevere. Dare uno stipendio senza contropartite, per riprendere le parole di Yunus, rende “l’uomo un essere improduttivo, ne cancella la vitalità e il potere creativo”.
E ricevere soldi immeritati rende sudditi, crea dipendenza, favorisce i pigri a scapito dei volonterosi, i furbi invece degli onesti. Perdere il concetto basilare dell’equilibrio fra diritti e doveri crea persone piene di pretese, a cui tutto è dovuto, incapaci di applicazione e di gratitudine (due premesse indispensabili per inseguire, se non la felicità, almeno la serenità).
Il reddito di cittadinanza non è una soluzione al dramma della disoccupazione, anzi, finisce per disincentivare chi è ancora motivato a “darsi da fare” per trovare un lavoro. Nei commenti al video di un recente comizio di Di Maio in Sicilia, un giovane dottorando, impegnato dieci ore al giorno per ottocento euro al mese in Università dopo un difficile percorso di studi, esami e concorsi, fa notare che per venti euro di differenza gli sarebbe convenuto mollare tutto, darsi alla bella vita e passare all’incasso.
Molto più saggio sarebbe, a mio giudizio, spendere gli stessi soldi previsti per il provvedimento (almeno 15 miliardi mal contati) per ridurre o annullare i carichi fiscali e contributivi per chi assume, eliminando anche tutta la selva di ostacoli burocratici che rendono la vita impossibile sia a che intende lavorare in proprio sia a chi vuole offrire occupazione. Un lavoratore al giorno d’oggi costa molto e crea un sacco di problemi e di incombenze: anche per questo le aziende riducono al minimo il numero dei dipendenti, spremendoli con carichi di lavoro esagerati.
È il contrario della logica e della storia. La tecnologia crescente ridurrà sempre più la necessità di manodopera e imporrà un ripensamento dei tempi di lavoro e una ridistribuzione degli impegni. Lo aveva già profetizzato nel 1930 Keynes, in uno scritto dal titolo suggestivo: “Prospettive economiche per i nostri nipoti”. Secondo il grande studioso inglese, il futuro (che coincide col nostro presente) sarebbe stato caratterizzato da turni lavorativi di appena tre ore, per complessive quindici ore settimanali. Il che conferma, fra l’altro, che “economista” fa rima spesso con “ottimista”.
In ogni caso, riprendendo uno slogan d’altri tempi, occorrerebbe lavorare meno per lavorare tutti (e anche, magari, per lavorare meglio). È quello che stanno già facendo in Germania e che fanno da sempre nei Paesi scandinavi. Il paradosso (solo apparente) è che in Germania un operaio lavora il 20% in meno che in Italia (precisamente 1371 ore annue procapite contro le oltre 1700 nostrane) ma produce il 20% in più e con uno stipendio decisamente maggiore. Questione di migliore organizzazione ed efficienza, certo, ma anche di decisioni politiche.
Puntare 15 miliardi sul reddito di cittadinanza va proprio nella direzione opposta: invece di lavorare meno e lavorare tutti, pochi condannati al lavoro forzato per mantenere i tanti che restano, volontariamente o meno, esclusi dal mondo dell’occupazione.
Sempre meno locomotive costrette a trainare sempre più vagoni. Non certo una buona premessa per una società serena ed equilibrata.
Vorrei concludere con una considerazione più generale.
Mi sembra molto triste il fatto che una parte consistente degli elettori italiani abbia così poca considerazione del proprio voto da essere disposta a venderlo al miglior offerente, a chi promette di più, a chi grida più forte. Un tempo forse si era troppo idealisti, si sognavano soli dell’avvenire e rosse primavere, paradisi in terra e utopie egualitarie.
Come diceva Gaber, molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare; ma oggi mi sembra che, al contrario, si riduca tutto a un triste mercato, a un dare (il proprio voto) per avere (qualche soldino). Si vota non chi ci ha convinto con il suo programma, la coerenza personale, le proposte, ma chi offre di più. E non idee, speranze, progetti, ma contanti. I politici fanno a gara a comprare il consenso elettorale con offerte monetarie crescenti in una rincorsa dissennata che non fa onore ai protagonisti, ma neppure ai cittadini che ci cascano e la assecondano.
Ci aveva provato Renzi, con gli ottanta euro “in busta paga” a chi lavorava, hanno subito rilanciato i pentastellati mettendo sul piatto delle illusioni la chimera dei 780 euro al mese per compensare la fatica di essere cittadini.
Il governo nascente parte con questa doppia ipoteca, un incrocio di promesse azzardate per catturare il voto delle fasce più abbienti (col taglio delle aliquote progressive) e di quelle più deboli, col miraggio dei soldi a fine mese.
Un peccato originale che peserà su tutta la legislatura, condizionerà l’attività politica e sarà pagato, come sempre, da tutti noi.

11-6-018 Pubblicato su La Guida del 14(?) Giugno 018