Leggere un diario

Ci sono libri che arrivano al momento giusto e frasi che ti sembrano scritte apposta per te. Ci sono libri che puoi usare come zattere e che ti aiutano a stare a galla: a volte ti capita di trovarteli sottomano proprio mentre stavi annaspando fra le onde e le correnti. Ci sono pagine che ti arrivano da lontano, come messaggi in bottiglia affidati al capriccio dell’oceano e trovate per caso sulla spiaggia. Ti chini a raccoglierle, le pulisci da sabbia e incrostazioni e scopri con stupore che il destinatario sei proprio tu.
Ci sono persone che scrivono libri senza accorgersi di farlo, buttando giù appunti frettolosi su fogli sparsi o ritagliandosi da giornate dure gli attimi per riempire le pagine di un diario. Scrivono per amore, per necessità, per speranza. Per lasciare dietro di sé una traccia, per fare ancora un regalo postumo a chi verrà dopo, per costruirsi rapporti che andranno oltre l’orizzonte della loro vita terrena.
Scrivono senza essere scrittori, senza averne il mestiere e la pretesa e ci regalano libri indispensabili.
La parola scritta è capace di annullare ogni distanza di spazio e di tempo e soprattutto di creare relazioni vere, solide, reali fra persone vissute in epoche diverse e in luoghi lontani. E, a volte, è capace anche di arrivare al momento giusto, quasi fosse una risposta personale a domande inespresse, una medicina o una ricetta scritta proprio per te in quel preciso momento.
Conoscevo Etty Hillesum per sentito dire e per averne letto citazioni sparse. Una di queste, riportata su un testo che stavo sfogliando – era un periodo di stanchezza in cui mi riusciva difficile anche leggere “davvero”, mi limitavo a gettar sguardi distratti su pagine a stampa per antica abitudine –  mi ha fatto venir voglia di approfondire la conoscenza. Mi sono così procurato il Diario 1941-43.
In genere sono un lettore veloce, navigo fra le pagine scritte mirando dritto alla fine. Con Etty sono stato costretto a rallentare, ad adattare la lettura al ritmo delle sue giornate dure e ripetitive, a impastarla con le mie giornate – una frase al mattino prima di andare al lavoro, una sbirciata fra i vari impegni pomeridiani, un momento più lungo prima di chiudere gli occhi la sera.
I diari si scrivono così, a spizzichi, nei tempi che chiamiamo “morti”  – e che spesso sono i più preziosi e vitali – e quindi bisogna anche leggerli così, incastrandoli fra le mille attività del quotidiano. Leggere un Diario è ricevere una confidenza, essere ammessi in stanze private: richiede rispetto e complicità, si deve stabilire un’empatia che può sfociare in una vera e propria amicizia fra autore e lettore, capace di superare tempi e luoghi diversi.
I diari non si possono riassumere, così come non ha senso riassumere una vita. Come la vita, sono fatti di alti e bassi, di indecisioni, di ripetizioni, di quotidianità. Hanno valore solo se fondati su quell’ “onestà cristallina” che Etty pretende da se stessa: altrimenti sono agiografia o sono falsi diari, artifici letterari che nascondono l’intento di giustificarsi o contrabbandare insegnamenti moralistici. Con Etty non si corre questo rischio: è una persona straordinariamente libera, nel modo di pensare come nei comportamenti, nella morale sessuale come nelle scelte pratiche. Ha relazioni intime poco convenzionali e supera, apparentemente senza troppi problemi, addirittura la scelta di un aborto.
Questa libertà di coscienza me la rende simpatica (oltre a metterla al riparo da inopportune canonizzazioni), ma non basta: si accompagna a un altrettanto straordinario senso del dovere che la spinge, in tempi terribili, a rifiutare vie di salvezza personali e andare fino in fondo alla sua strada.
Etty, ebrea, vive nell’Olanda occupata dai nazisti. Nel Diario si vedono sullo sfondo le progressive restrizioni alla libertà individuale, uno stillicidio di provvedimenti sempre più assurdi e crudeli (dal divieto a salire sugli autobus a quello di usare le biciclette, fino a vietare parchi e percorsi campestri e impedire l’accesso ai negozi) che sfocerà nella deportazione e nello sterminio programmato. Col diminuire delle libertà esteriori cresce in lei una incredibile pace e serenità intima, capace di riversarsi sugli altri.
La sua straordinaria intelligenza intuitiva le rende chiara da subito l’ineluttabilità del finale tragico. Etty, intellettuale raffinata ed estrosa, capisce che non può rifugiarsi nella vita contemplativa e neppure tentare vie di fuga individuali: “E’ qui, ora, in questo luogo e in questo mondo, che devo trovare chiarezza e pace e equilibrio. Devo buttarmi e ributtarmi nella realtà, devo confrontarmi con tutto ciò che incontro sul mio cammino, devo accogliere e nutrire il mondo esterno col mio mondo interno e viceversa, ma è tutto terribilmente difficile”.
Questa frase ha la bellezza estetica e il peso specifico delle parole immortali: si adatta benissimo a questo difficile autunno del 2012, al nostro spaesamento e turbamento, alla necessità di cercare dentro di noi senza richiudersi nella prigione del personale, di guardare nell’animo senza dimenticare la realtà che ci circonda: “Non credo che si possa migliorare qualcosa del mondo esterno senza prima aver fatto la nostra parte dentro di noi. E’ l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove ”.
Capisce che le tremende e concretissime difficoltà che dovrà affrontare non si possono risolvere sul piano concettuale e  che non potrà trovare soluzioni nei giochi di parole o di pensiero: “Tanto col pensiero non ci arriverò mai. Pensare è una bella, una superba occupazione quando studi, ma non puoi “pensarti fuori” da uno stato d’animo penoso. Allora devi fare altro, farti passiva e ascoltare, riprendere contatto con un frammento d’eternità.”
E’ un lavoro lungo e difficile, la serenità e la pace si raggiunge solo passando attraverso lo sconforto, la rabbia e la disperazione. Noi, lontani lettori sovente siamo tentati di minimizzare le tensioni, le difficoltà, i dubbi di chi sappiamo – a posteriori – essere un luminoso esempio di altruismo eroico. Dello scalatore dell’Everest ricordiamo la foto in vetta, del ciclista, le braccia alzate sul traguardo e non vediamo la fatica, il dolore, la preparazione, le rinunce che stanno dietro al “successo”.
La lettura attenta del Diario ci rivela tutti i passaggi per arrivare a quel senso finale di pace, libertà e gioia capace di sopravvivere al filo spinato e ai vagoni piombati. Un vero e proprio allenamento quotidiano, un lavoro continuo su se stessi, senza scorciatoie:  “A volte vorrei rifugiarmi con tutto quel che ho dentro in un paio di parole. Ma non esistono ancora parole che mi vogliano ospitare. E’ proprio così. Io sto cercando un tetto che mi ripari, ma dovrò costruirmi una casa, pietra su pietra.”.
E senza neppure l’illusione di trovare soluzioni, di risolvere il mistero, con la consapevolezza che la visione chiara si paga passando attraverso innumerevoli banchi di nebbia:  “Studierò e cercherò di capire, ma credo che dovrò pur lasciarmi confondere da quel che mi capita e che apparentemente mi svia: mi lascerò sempre confondere, per arrivare forse a una maggior sicurezza. Fin quando non potrò più smarrirmi e si sarà stabilito un più profondo equilibrio – un equilibrio in cui tutte le direzioni saranno possibili”.
Leggere un diario è come fare una lunga camminata in compagnia di una persona, imparando a conoscerla passo dopo passo. Accompagnando Etty  nelle sue giornate sempre più difficili, frustranti e dolorose, si vede come cambia nel tempo il suo rapporto con Dio. All’inizio è poco più che un estraneo che ogni tanto si affaccia, fra un problema sentimentale e un commento a versi poetici. Piano piano Etty “la ragazza che non voleva inginocchiarsi” capisce che: “Si deve avere anche il coraggio di dirlo. Il coraggio di pronunciare il nome di Dio. Ascoltarsi dentro. Non lasciarsi più guidare da quello che si avvicina da fuori, ma da quello che si innalza dentro.” Fino ad arrivare all’ultimo quaderno, appena prima di partire per la Polonia, in cui Dio diventa l’interlocutore fisso e la scrittura assume la veste di dialogo (o preghiera, se il termine non si fosse impregnato di significati impropri, fino a diventare sinonimo di supplica o richiesta interessata).
Il suo è un Dio che non ha etichette, non è imprigionato in immagini religiose: “Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in questa sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo”.
Non è il Dio dell’ebraismo e neppure quello del cristianesimo: è piuttosto il Dio di Cristo e anche quello di Mosè e dei patriarchi, privo di ogni sovrastruttura culturale. Non è, però, un Dio anonimo, ha la faccia delle Scritture, di cui Etty scopre, meravigliandosi, significati profondi e diversi man mano che deve confrontarsi con una vita sempre più difficile: “A volte, ultimamente, mi capita di vedere una singola frase della Bibbia in una luce nuova, ricca di significato e di vita. Dio creò il mondo a sua somiglianza. Amate il prossimo vostro come voi stessi.”  
Com’è nel suo carattere, anche con Dio Etty ha un dialogo schietto, assolutamente non convenzionale (soprattutto per quei tempi!), a volte sfrontato: “E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio”.  Ma non lo accusa mai, non gli fa domande indiscrete, non ha pretese: “Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi a esserlo verso di lui.”
E’ un interlocutore affidabile e premuroso, ma non è l’ Ente a cui affidarsi per la soluzione di problemi pratici o con cui contrattare i dettagli dell’esistenza. Etty non fa teologia, non pretende di darci spiegazioni, non ha più tempo ed energie neppure per essere “brillante”: “Una volta mi sentivo in dovere di concepire molti pensieri geniali al giorno, ora mi sento non di rado come una terra incolta su cui non cresce assolutamente niente, ma su cui si estende un cielo alto e tranquillo. Meglio così, in questo momento non mi fiderei troppo dei pensieri brillanti.
E parole come Dio e Morte e Dolore e Eternità si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare un’altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere.”
Ma forse è proprio questo contatto continuo con quel pezzetto di sé che “per comodità chiamo Dio” che le permette di guardare con fiducia al futuro nonostante tutto: “Mio Dio, è un periodo troppo duro per persone fragili come me. So che seguirà un periodo diverso, un periodo di umanesimo. Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa malgrado le mie esperienza quotidiane. L’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi”.
Nel fango del campo di smistamento, cinquecento metri per seicento stretti fra i fili spinati e sovraffollati di miseria e disperazione, nell’attesa snervante dell’epilogo finale, riesce a scrivere: “Mi sembra di custodire un piccolo pezzo di vita, con tutta la responsabilità che me ne viene. Mi sento responsabile per quel grande e bel sentimento della vita che mi porto dentro, devo cercare di mantenerlo intatto in questo tempo per poterlo trasmettere a un tempo migliore. E’ l’unica cosa che conta e ne sono pienamente cosciente.”
Etty esprime più volte nel Diario la sua intenzione e la sua speranza di scrivere un libro “in futuro” in cui trasmettere agli altri le sue esperienze: “Tornando a casa nella notte tiepida…ho ritrovato improvvisamente quella certezza…Un giorno scriverò: le lunghe notti che passerò a scrivere saranno le mie notti migliori. E allora verrà fuori tutto quello che accumulo dentro, scorrerà pian piano come una corrente senza fine.”.
Non ha fretta, sa che la scrittura ha tempi suoi e che la stesura è un dettaglio: “Aspetterò ancora, fin quando tutto verrà fuori spontaneamente e troverà una forma: prima, però, devo trovare io stessa una forma, la mia forma.”. Anche lo scrivere fa parte, dunque, del lavoro su se stessi e nasce dalla necessità di “trasmettere” agli altri, di condividere.
Etty è passata attraverso il buio e la nebbia ed è riuscita a vedere la luce, ad esserne attraversata e vuole riversarla sugli altri. I compagni di prigionia ricordano proprio la sua luminosità, conservata fino all’ultimo.
La vita non gli dà il tempo di scrivere il libro che aveva sognato e progettato, ma io credo che le abbia regalato, in ultimo, la certezza stupita di averlo, inconsciamente, già scritto.
La sua incrollabile fiducia le avrà anche fatto sperare nel fatto, estremamente improbabile, che i suoi quaderni sopravvivessero alle vicissitudini degli anni di guerra e arrivassero ai posteri.
Probabilmente sapeva che Dio fa volentieri da postino: ci pensa lui al recapito. Il servizio, come ognuno può immaginare, è di straordinaria efficacia, anche se la tempistica è quella di chi ha un’intera eternità davanti a sé e non conosce ansia e fretta esistenziale. Il Diario di Etty ha impiegato trentotto anni ad arrivare al gran pubblico, passando da una mano amica all’altra fino a trovare la strada per trasformarsi in un libro diffuso e tradotto in tutto il mondo.
Io ho ricevuto il messaggio a quasi settant’anni dalla sua spedizione e mi è arrivato proprio in un momento in cui avevo bisogno di leggere quelle parole e di passare un po’ di tempo con un tipo come Etty.
Ho voluto condividerle con voi, a costo di abusare della vostra pazienza e di accatastare in modo disordinato troppe citazioni, e pur sapendo che per molti lettori del Granello Etty Hillesum è persona nota, letta e meditata con ben altra profondità.

Cervasca, 25-11-012            lele
Pubblicato sul Granello di dicembre 012