Una scuola di valle
Ho letto con vero piacere sulla Guida della scorsa settimana l’articolo di Monica Arnaudo che ricordava i 60 anni dall’inaugurazione della scuola agraria di Demonte, nel luglio dell’ormai lontano 1963, e non posso fare a meno di inserire anche i miei ricordi personali nel racconto di questa piccola ma molto significativa scuola di “agricoltura montana”. Una storia che è per me bella e insieme un po’ triste e che si è intrecciata in modo molto stretto con la mia vita professionale, famigliare e personale.
Una storia che vale la pena ricordare come esempio di una realtà scolastica profondamente legata a un territorio, che ha permesso a molti ragazzi della valle di non abbandonare gli studi dopo le medie almeno per un biennio, con un diploma che allora dava accesso a percorsi lavorativi qualificati (ad esempio, al corso da infermiere professionale). Ha saputo dare dignità e valore all’attività agricola montana e all’allevamento, proprio negli anni in cui la tendenza era l’abbandono e sovente anche il disprezzo o la commiserazione per stili di vita e di lavoro che si ritenevano superati e perdenti.
Per me, dopo i consueti anni di supplenze e incarichi in giro per la provincia, è stata anche la prima sede di ruolo: nell’autunno del 1983, fresco di concorso, avevo scelto proprio Demonte. Da tempo volevo andare a vivere in montagna e una scuola superiore in un piccolo comune di media valle era una combinazione più unica che rara, che mi dava modo di concretizzare un progetto di vita a cui tenevo molto. Per questo avevo acquistato case e terreni in una sperduta borgata disabitata, allora non servita da strada e luce elettrica. La scuola era in paese e ci sarei arrivato anche a piedi o con gli sci, nei mesi invernali.
Ho insegnato per nove anni nella piccola scuola agraria e ne conservo ricordi meravigliosi. Ho, purtroppo, anche vissuto in prima persona le fasi del declino e della chiusura.
Al centro di ogni storia ci sono delle persone e quella della piccola scuola agraria di valle si può riassumere nei nomi del preside Ugo Genta e del bidello-mezzadro Maté Caranta. Maté, originario di una sperduta borgata di Valloriate, era il bidello della scuola, ma soprattutto era l’anima e il corpo dell’azienda agraria. Quando sono arrivato io, negli anni 80 ormai non si allevavano più bovini e la stalla era vuota, ma i terreni erano ben curati, con ortaggi, cereali e foraggere e i ragazzi potevano partecipare alle varie operazioni colturali, unendo l’esperienza pratica alle lezioni teoriche. Negli anni precedenti questa simbiosi fra manualità e studio era ancora molto più accentuata, nell’officina gli allievi imparavano anche a saldare e a fare semplici interventi di meccanica agraria. Era una vera scuola agraria, nel senso pieno del termine, e nei primi tempi si rivolgeva soprattutto a ragazzi di estrazione rurale della valle. Perfino l’orario delle lezioni era funzionale alla stagionalità delle varie operazioni agricole: a fine maggio si chiudeva in anticipo per permettere i lavori di fienagione e semina, in autunno si tolleravano assenze per la raccolta delle castagne.
Tutto ciò era stato possibile grazie alla straordinaria personalità di Ugo Genta, vero “inventore”, dirigente e organizzatore delle diverse scuole agrarie della provincia, ognuna con un’anima diversa e plasmata sul territorio. La frutticoltura a Verzuolo, cereali e allevamento a Cussanio, la vite a Grinzane, la nocciola a Cravanzana e l’agricoltura montana a Demonte.
Ma negli anni 80 la valle Stura risentiva ormai dello spopolamento e anche la popolazione scolastica diminuiva. L’illusione di benessere e l’ostentazione di vuota modernità di quel periodo rendevano meno attraenti per i giovani i lavori legati a terra e allevamento. Il preside Genta aveva avuto l’intuizione di abbinare all’indirizzo agrario quello linguistico e di raccogliere allievi dalla pianura con un servizio di autobus gratuito.
Poi anche per Maté era arrivata l’età della pensione e il preside mi aveva convocato per comunicarmi che, se si voleva provare a far sopravvivere la scuola, dovevo subentrare nella coltivazione dell’azienda e trasferirmi lì come abitazione. Una scuola agraria doveva avere un’azienda di riferimento, ma per le ridotte dimensioni della sede di Demonte era impensabile provvedere con salariati o impiegati. Così, senza volerlo, mi sono trovato “promosso” al ruolo di direttore, sia della scuola che dell’azienda. Ruolo incompatibile con il mio carattere e le mie capacità, ma, in fin dei conti, puramente teorico: in pratica dirigevo me stesso e una trentina fra pecore e capre di nostra proprietà, che avevano ripopolato provvisoriamente la stalla. Con il vecchio trattore Fiat e gli ancor più datati virafén e rastlina cercavo di fare il fieno, piantavo patate e facevo del mio meglio per non far troppo rimpiangere i tempi d’oro di Matè. Stavano nascendo proprio allora i primi tentativi di agricoltura biologica, avevamo creato una piccola associazione di produttori e con la partecipazione attiva degli allievi avevamo piantato un piccolo frutteto di vecchie varietà locali di mele e pere. In collaborazione con l’università di Torino avevamo sperimentato in pieno campo un prodotto naturale contro la dorifora della patata.
L’azienda era coltivata, la casa colonica abitata e dopo decenni la stalla risuonava di belati di ovini e dell’abbaiare del nostro cane da pastore. Nessuno allora se ne è reso ben conto, neppure noi diretti interessati, ma con ogni probabilità siamo stati la prima azienda di una scuola agraria in Italia coltivata con metodo biologico.
Ma la scuola ormai aveva i giorni contati. Il preside Genta era andato anche lui in pensione e senza il suo peso “politico” era difficile perpetuare il miracolo della sopravvivenza di una piccola scuola coordinata.
La nave stava affondando e le mie visite in comune e comunità montana per coinvolgere politici e amministratori nel tentativo di salvataggio non avevano dato alcun risultato.
Forse ora ci sarebbe una diversa sensibilità su questi temi, forse sarebbe più facile rendersi conto dell’importanza e della fortuna di poter contare in valle su una scuola superiore, forse l’abbinamento di pratiche agricole rispettose dell’ambiente con la posizione marginale di una vallata alpina sarebbe considerato un capitale da preservare.
Nell’autunno del 92 il preside che aveva sostituito Genta mi comunicava che non si sarebbe più fatta una prima: il numero minimo era di quindici allievi e ne mancavano un paio. La spietata legge burocratica dei numeri aveva la meglio su speranze, sogni e impegno. Pochi giorni dopo mi arrivava la notifica del trasferimento d’ufficio, a Cuneo ai geometri. Dall’azienda nessuno mi cacciava, ma non aveva senso continuare senza allievi e prospettive: dovevo fare “San Martìn” e cercare casa per me, famiglia e animali.
Per noi iniziava un periodo di incertezze che ci ha portato a scappare dalla “nostra” valle Stura per trovare poi un buon approdo sulle colline di Cervasca. Ma, al di là della mia storia personale, resta il rimpianto per non essere riuscito a salvare quella che è stata per me la scuola più bella della mia lunga carriera di insegnante.
Una scuola piccola, semplice, serena, seria. Ancora oggi, a decenni di distanza, conservo l’amicizia indelebile e una gratitudine profonda per colleghi, allievi, collaboratori.
E il rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non è stato.
Pubblicato su La Guida del 20-7-023