Ordinati di Vignolo 1770-1: conservare il territorio

La lettura è un piacere che aumenta col passare degli anni, soprattutto se è associata alla gioia di imparare qualcosa di nuovo e di inaspettato. Sono lettore casuale, leggo di tutto, all’unica condizione di farlo, appunto, con piacere, senza mai sconfinare in obblighi di alcun tipo, neppure con me stesso. Concordo con Pennac, quando afferma che il verbo leggere non sopporta l’imperativo, anzi estenderei l’esclusione di quel brutto modo verbale da quasi tutti i nostri discorsi. Oltre ai libri attuali, per cui ringrazio quel servizio fondamentale che chiamiamo biblioteca, mi piace curiosare in testi del passato.
Quest’inverno, grazie alla gentilezza del sindaco di Vignolo e alla tecnologia di foto digitali ho potuto passare qualche decina di ore piacevoli immerso in un corposo testo che raccoglie gli Ordinati di fine Settecento. Si tratta, in pratica, dei verbali dei consigli comunali dell’epoca, scritti con grafia non sempre facile da decifrare (ma in quarant’anni di scuola mi sono allenato nell’arte di capire il senso di linee contorte tracciate su carta). Certo, i verbali delle riunioni di amministratori di quasi tre secoli fa sono per gran parte ripetitivi e anche noiosi, ma in mezzo alle formule scontate e burocratiche spesso salta fuori la vita di allora, con tutta la sua vivacità, drammaticità e intensità. La vita quotidiana di un piccolo paese, con nomi e cognomi (spesso identici agli attuali), strade, chiese, luoghi, piccoli e grandi drammi, lavori, tasse, fame e carestie, ma anche momenti di festa e di gioia.
Sono d’accordo con De Gregori, quando canta che “la storia siamo noi”, anzi ribalterei la frase dicendo che noi siamo la nostra storia (e pure la nostra geografia), dobbiamo solo fermarci un attimo a cercare di coglierne la voce ormai flebile, spesso nascosta in luoghi di difficile fruizione, come gli archivi comunali. In questo, la tecnologia digitale è davvero preziosa e permetterebbe di rendere disponibile a tutti i molti tesori sepolti fra gli scaffali impolverati. Oltre alla pazienza nella lettura servono però altri ingredienti, per farci rivivere il nostro passato. Occorre qualche nozione di base (non solo storica, ma anche linguistica, economica, fiscale, agricola) e soprattutto tanta immaginazione, il solo ingrediente capace di resuscitare quel passato che altrimenti sembra davvero morto.
Uno dei regali spesso inaspettati di questo curiosare nel nostro comune passato è la scoperta delle molte connessioni col presente, nei luoghi, nelle espressioni, nei nomi di persone e di cose, nelle difficoltà, nelle aspirazioni, nelle feste. Queste connessioni, che a volte diventano coincidenze, ci fanno capire quanto siamo legati a questo territorio in cui ci è capitato di vivere e quanto noi stessi siamo parte di questo mare di persone, storie, avvenimenti, tradizioni, speranze, sforzi, errori e successi.
Di questa mia lunga lettura invernale vorrei condividere qualche spunto. Non sono uno storico, quindi nessuna pretesa di parlare di Storia, quella con la S maiuscola. Solo il piacere di condividere alcune storie, quelle con la s minuscola della vita quotidiana della gente comune. Incomincio da una questione di estrema attualità, una di quelle “connessioni” fra passato e presente di cui dicevo.
Nella seconda metà del Settecento i piccoli comuni (allora definiti “comunità”) erano amministrati da un consiglio di soli tre componenti, sindaco compreso, con mandati che scadevano in tempi brevi. Nella lettura degli Ordinati (i verbali delle riunioni di consiglio) si ripetono quindi spesso le procedure di nomina e giuramento del nuovo eletto, che andava a sostituire il consigliere in scadenza. La persona prescelta doveva essere “di tutta probità”, senza legami di parentela o affinità con altri amministratori ed in genere era scelto “fra i migliori registranti” (proprietari terrieri), e in modo da rispettare “l’alternativa delle borgate”, cioè l’equilibrio fra le diverse frazioni del comune.
Il futuro consigliere doveva prestar giuramento “toccate corporalmente le Scritture” e prometteva solennemente, oltre che di “amministrare con tutta lealtà le cose pubbliche” anche “di vegliare con fermezza ed attività alla conservazione del territorio”.
Quest’ultima frase mi ha colpito per il peso, l’importanza e soprattutto l’estrema attualità di ogni singola parola. Vegliare è verbo che comporta attenzione, amore e cura. Si vegliano i malati, i bambini piccoli. Vegliavano le sentinelle di guardia alle mura di città assediate. Un vigilare attento, che richiede “fermezza e attività”, cioè un’intransigenza e una decisione unita a un darsi da fare, senza inerzie, pigrizia o passività. Il fine di questa azione è “la conservazione del territorio”, espressione di estrema attualità e urgenza, che quasi sorprende trovare in polverosi verbali settecenteschi dei nostri piccoli paesi.
Chiunque si proponga come amministratore dovrebbe anche oggi attenersi a questo fondamentale giuramento e mettere al primo punto del suo programma la conservazione del territorio che gli abbiamo affidato. E noi elettori dovremmo essere intransigenti su questo punto e “bocciare” (il termine scolastico non è casuale, in fondo votare significa proprio dare un voto, positivo o negativo) con rigore ogni eletto che non rispetti la solenne promessa. Come abbiano “conservato il territorio” gli amministratori del nostro recentissimo passato lo abbiamo tutti sotto gli occhi. Chi ama i numeri può anche immergersi in statistiche e resoconti che traducono lo scempio generalizzato che tutti vediamo in percentuali e dati.
“Conservare il territorio” ha oggi un significato diverso da quello che poteva avere a fine Settecento. Allora i problemi potevano essere uno sfruttamento troppo intensivo, la scomparsa dei boschi, ridotti a “bissoni” per i turni brevissimi, il pascolo e i tagli troppo frequenti. Oggi i nemici del territorio sono il cemento, i capannoni, le infrastrutture, le strade, le “grandi opere”, i nuovi fabbricati (ospedali e scuole comprese) che ne sostituiscono altri esistenti. Ma anche il degrado, il mancato utilizzo, l’inselvatichimento, il proliferare di animali selvatici dannosi e pericolosi. Tutte cose spacciate per ambientalismo a noi abitanti del terzo millennio, con pance, teste e dispense piene e vite, sovente, troppo vuote.

Pubblicato su La Guida del 25-5-023