Birra 1: tra vino e birra

Quand’ero piccolo il mese di ottobre era caratterizzato da due cose: l’inizio della scuola, con fiocchi blu, colletti bianchi e grembiulini neri e il rituale del farsi il vino, con tutti i suoi odori e il susseguirsi delle sue operazioni. La pulizia del grande tino in castagno (“la” tina, in piemontese), il camioncino che scaricava le casse di uva nel vicolo, la pigiatrice con la grande manovella di ferro, gli innumerevoli giri sulle scale strette della cantina con ceste e secchi, le fasi della fermentazione, i rabbocchi, il torchio.
Farsi il vino era un tempo un’operazione importante e una premessa indispensabile dell’ospitalità. Quando in casa arrivava qualcuno, noi bambini eravamo spediti in cantina, con le precise istruzioni per prendere la bottiglia “buona” da stappare in onore di chi aveva bussato alla porta. La cantina era allora una componente essenziale della casa, usata quotidianamente anche per conservare alimenti, formaggi, patate e per prodursi l’aceto nell’apposita botte, e salire e scendere le scale dai gradini consunti di pietra era il “lavoro” di noi bambini.
Le botti di rovere e la tina in castagno sono ancora al loro posto, ma da decenni nessuno le usa più e ormai sono difficilmente recuperabili. Una botte in legno dovrebbe idealmente sempre star piena e si rovina irreparabilmente per il mancato utilizzo prolungato.
Più volte avevo pensato di rispolverare la vecchia attrezzatura casalinga e provare a fare il vino, ma ogni volta avevo rinunciato: troppo impegnativo, costoso, difficile. La fermentazione del mosto richiede quantitativi importanti di uva e deve essere seguita con attenzione; io non abitavo più nella vecchia casa di famiglia e fare il vinificatore pendolare non è consigliabile. In compenso, da quasi vent’anni mi faccio la birra e mi consolo così di non aver seguito le orme famigliari di autoproduzione vinicola e di aver lasciato andare in malora botti e tini.
L’idea di provare a fare la birra mi è venuta una ventina d’anni fa ad alta quota, i 2700 metri del rifugio Pagarì. Arrivarci non è difficile, ma è sempre maledettamente lungo, così per premiarmi dello sforzo mi ero concesso un bicchiere dal gestore Aladar, e avevo scoperto con stupore che la buona birra che stavo bevendo non era un prodotto industriale, ma l’aveva fatta lui. A inizio anni duemila non erano ancora diffusi come oggi i birrifici artigianali e la pratica della produzione casalinga era ancor meno comune, si faticava a trovare gli ingredienti e la strumentazione necessaria. Ma le poche parole di Aladar mi avevano fatto venir voglia di imitarlo e da allora ho iniziato con soddisfazione a cimentarmi con lieviti, malti e luppoli.
Bere è una componente importante del mangiare, come dimostra l’accoppiata pane-vino tipica della nostra tradizione, che riassume in due parole l’arte e lo sforzo di nutrirsi. Birra e vino sono due modi paralleli di sfruttare la fermentazione che trasforma i carboidrati in alcol; il vino è di certo più radicato nel nostro territorio e nella nostra tradizione, ma la produzione casalinga di birra offre il vantaggio di essere meno impegnativa della vinificazione, sia in termini di costi che di attrezzatura e di spazio.
L’investimento iniziale per il materiale minimo indispensabile è di poche decine di euro ed è possibile anche imparare da sé la tecnica cominciando con procedimenti semplici e arrivando col tempo alle lavorazioni più complesse e delicate.
Farsi da sé la birra offre due vantaggi certi: non si sprecano le bottiglie di vetro, come nel caso di quella acquistata, e, procedendo per tentativi, si può scegliere la tipologia che più ci piace, come gradazione alcolica, corpo, colore, grado di amaro, schiuma. E, se abbiamo la fortuna di avere nelle vicinanze qualche buona sorgente possiamo anche sfruttarne l’acqua, che, in fin dei conti, è la materia prima più importante, almeno a livello quantitativo.
Chi vuole iniziare la produzione casalinga di birra senza avere grande esperienza, può saltare le fasi più difficili e partire già dall’estratto luppolato, ormai facilmente reperibile. Un fermentatore in plastica (in pratica un secchio con coperchio e sfiatatoio), un termometro e qualche prodotto per sanificare e imbottigliare sono le poche cose necessarie per le prime esperienze, assieme ai consigli di amici o alla lettura di qualche testo divulgativo sull’argomento. Col tempo e la pratica verrà la passione e un briciolo di esperienza, che spingerà a personalizzare il procedimento, partendo dal malto d’orzo e dai diversi luppoli, oltre che da lieviti selezionati. Allora si potranno acquistare strumenti e materiali più adatti e si arriverà a farsi la “propria” birra, con la stessa soddisfazione che provava mio nonno e mio padre a fare il vino nella cantina di casa.
Perché, in fondo, vino o birra poco importa: quello che conta è stappare una propria “buona” bottiglia per l’ospite che suona alla porta.

Pubblicato su La Guida del 16-3-023