Autosufficienza 5: il pane quotidiano

Nel rileggere questa già lunga chiacchierata sul tema dell’autosufficienza mi sono accorto che, come mi capita spesso, ho cominciato dalla fine o dai margini, senza affrontare ancora l’argomento principale. Prima di arrivare alla frutta, che in genere conclude il pasto, bisogna pensare al pane e alla pasta, cioè ai cereali, il piatto forte dell’alimentazione, soprattutto in passato. L’ordine inverso con cui mi è venuto spontaneo affrontare il discorso può essere significativo di un’epoca e di una parte del mondo, la nostra, in cui la fame vera non è neppure più un ricordo, ma un’esperienza mai davvero vissuta e quindi non interiorizzata.
Se curiosiamo negli archivi o leggiamo le relazioni ufficiali, le statistiche e i questionari è facile notare che nei secoli scorsi nei nostri paesi non si parlava quasi mai di frutta, verdura, ortaggi, ma sempre solo di cereali e, in modo molto minore, di legumi.
A partire da metà Settecento la burocrazia sabauda, meno impegnata a far guerra, era diventata molto più capace di controllare anche i comuni più remoti e richiedeva precise statistiche sulle produzioni di segale, frumento, avena e altri cereali. Per vivere era ritenuta allora necessaria e sufficiente una quantità di granaglie pari a dieci emine per persona all’anno, poco meno di due quintali. Obiettivo quasi sempre raggiunto (come media) nella pianura e nei fondovalle, ma difficile o impossibile nelle comunità in quota, allora molto popolate. Castelmagno, ad esempio, che allora contava ben oltre mille abitanti, avrebbe dovuto disporre di almeno diecimila emine di segale ed orzo, mentre i dati parlano di una produzione da cinque a dieci volte inferiore.
I cereali, simboleggiati dal pane quotidiano, erano in passato la base dell’alimentazione e della possibilità di sopravvivenza e quindi il punto chiave per garantirsi l’autosufficienza alimentare. Basta osservare, vicino alle borgate di alta valle, i campi terrazzati costruiti con fatiche immani da generazioni di montanari per ricavare pochi metri quadri di terreno idoneo alla semina da pendii molto scoscesi. La quota stessa degli abitati permanenti, nel corso dei secoli, ha seguito le fluttuazioni climatiche, e non superava quasi mai quella in cui era ancora possibile coltivare la segale.
Adesso, per assurdo, invece sono proprio i cereali i prodotti meno facili e abituali da coltivare da soli. Anche chi si produce frutta, verdura, uova, legna da ardere, in genere deve comprare la farina per farsi il pane. Non è che sia tecnicamente difficile coltivarsi la segale o il grano per il fabbisogno famigliare, ma è molto laborioso mieterlo, batterlo e poi macinarlo senza attrezzatura adeguata.
Ci avevo provato, una quarantina d’anni fa, quando ancora abitavo in una borgata di media valle, con l’entusiasmo della gioventù e la voglia, un po’ ingenua, di ripercorrere le orme di chi mi aveva preceduto su quei bricchi. Avevo scelto uno dei pochi appezzamenti quasi pianeggianti e lo avevo concimato e preparato a dovere. La semina a spaglio era venuta bene, il frumento era cresciuto vigoroso e senza neppure troppe erbacce, ma le difficoltà sono arrivate al tempo della raccolta. Tagliare col masuirot, fare e legare i covoni era stato laborioso, ma soddisfacente. La trebbiatura, invece, con un attrezzo d’epoca recuperato per l’occasione e collegato empiricamente alla presa di forza del trattorino non aveva dato i risultati sperati. Forse per problemi di regolazione, forse per la veneranda età della trebbia, la separazione del grano da paglia e pula era stata solo parziale. Così la poca granella prodotta, con grandi fatiche e speranze, era finita nel pastoùn delle galline.
Anche i successivi tentativi di fare in proprio almeno la fase di macinazione sono stati deludenti. Un piccolo mulino elettrico a pietra, acquistato a caro prezzo e con fatica, non si era dimostrato efficace. Mio nonno, che aveva fatto per tutta la vita il mugnaio e il granatìn, mi avrebbe detto sorridendo che le macine del suo mulino pesavano dodici quintali e giravano molto lentamente, mosse dalla forza paziente dell’acqua. Il mio costoso giocattolo aveva macine di pochi chilogrammi, che per rompere la granella erano costrette a girare freneticamente, producendo calore e rovinando la farina. Così il mulino è finito a fare il soprammobile e la farina andiamo a prenderla da chi ancor oggi sa fare bene il mestiere che era di mio nonno.
Il mio goffo e fallimentare tentativo di produrmi almeno il pane quotidiano è però servito a qualcosa: mi ha fatto capire (e noi umani le cose le capiamo solo facendole) quanto sia difficile e laborioso prodursi anche solo il pane che mettiamo sulla tavola, perfino in questi tempi di abbondanza in cui i rapporti fra pane e companatico sono molto sbilanciati a favore del secondo. Chi non l’ha provato non può davvero rendersi conto di quanto fosse duro in passato sulle nostre montagne procurarsi quelle dieci emine annue di cereali necessarie per riempirsi la pancia.
Mi ha fatto anche capire come mai, quand’ero piccolino, in casa fosse considerato sacrilego lo spreco anche di una sola briciola di pane.

Pubblicato su La Guida del 10-11-022