Autosufficienza 4: un cane che si morde la coda

La volta scorsa si era parlato dell’evoluzione della frutticoltura, passata da una realtà di frutteti promiscui, con pochi alberi di grandi dimensioni sparsi per prati e campi a una situazione in cui predominano in modo quasi assoluto impianti specializzati, con portainnesti deboli e alta densità di piante. Un’evoluzione dettata da esigenze tecniche e commerciali comprensibili e solide, ma che rende enormemente più difficile contenere i danni di parassiti vegetali e animali senza ricorrere a prodotti chimici negativi per gli operatori, i consumatori e l’ambiente.
Il frutteto specializzato è, infatti, per molti aspetti, un cane che si morde la coda. Mettere migliaia di piante alla minore distanza possibile una dall’altra significa creare le condizioni ottimali per tutti i tipi di parassiti che colpiscono alberi, foglie e frutti. Con migliaia di vegetali che si toccano e si sovrappongono, insetti e acari hanno cibo in abbondanza senza neppure doversi spostare per trovarlo. Con la pancia piena, finiscono per riprodursi in maniera esagerata e obbligano a moltiplicare gli interventi chimici per il contenimento dei danni. Ma gli insetticidi, oltre a essere sempre in qualche modo tossici per l’uomo, sono spesso poco selettivi, cioè uccidono tutto ciò che trovano per strada. Anche (e a volte soprattutto) i parassiti dei parassiti che volevamo colpire, col risultato di obbligarci ad altri trattamenti, in una spirale che conviene solo alle industrie di fitofarmaci, ma fa gravi danni a tutti, in particolare ai consumatori e agli stessi produttori. Nonostante tutte le moderne protezioni, infatti, è difficile per gli operatori non subire contaminazioni usando continuamente prodotti molto tossici e spesso anche molto subdoli (nel senso che oltre alla tossicità acuta misurata con le varie classi, hanno anche rischi di accumulo, di cancerogenicità o di indurre malattie neurologiche e degenerative, che possono sfuggire all’attenzione dei controlli).
Ogni intervento chimico compromette il delicato equilibrio ecologico fra gli insetti che fanno danni alla frutta e i predatori, loro nemici naturali, che ne contengono l’espansione incontrollata. In questo senso, quindi, possiamo dire che un trattamento tira l’altro, come è capitato nel recente passato in tutto il mondo, provincia di Cuneo compresa. Ricordo di aver letto, ai tempi ormai lontani dell’insegnamento, le tabelle relative ai danni da insetto e alle spese per antiparassitari negli USA a partire da inizio Novecento. I numeri erano sorprendenti: con l’aumentare della spesa per insetticidi aumentava anche l’incidenza dei danni da insetti, esattamente il contrario di quella che dovrebbe essere la logica.
L’esempio degli afidi, quelli che chiamiamo spesso pidocchi delle piante (pui in piemontese) ci fa capire bene il meccanismo. Gli afidi vivono a migliaia sulle pagine inferiore delle foglie, hanno apparato boccale pungente-succhiatore e passano la vita immobili a succhiare la linfa della pianta, spesso protetti da uno scudetto ceroso. Si riproducono molto velocemente, nella buona stagione addirittura per partenogenesi, cioè senza neppure dove perdere tempo per accoppiarsi. Possono fare danni gravissimi, sia sui fruttiferi che su piante erbacee, come i fagioli. Per fortuna, hanno anche loro qualche nemico naturale, in particolare le simpatiche coccinelle, che gradiscono molto una dieta di pidocchi. Una sola coccinella ne elimina moltissimi ogni giorno. E’ il meccanismo con cui la natura riesce a mantenere il delicato equilibrio fra predatori e prede.
Ma la natura non mette migliaia di meli o fagioli a distanza ravvicinata e quando noi lo facciamo siamo poi costretti a intervenire con un prodotto che uccida gli afidi. E’ però molto più facile colpire una grossa coccinella che un minuscolo pui, che sta sotto la foglia, spesso al riparo del suo scudetto ceroso. Così finisce che il nostro insetticida uccide tutte le coccinelle, ma solo il novanta per cento degli afidi, col risultato che i superstiti in poco tempo ritornano a far danni come prima o più di prima. Inoltre, usando un prodotto poco specifico abbiamo rotto il delicatissimo equilibrio biologico che regola i rapporti fra specie e spunteranno presto altri problemi, magari sotto forma di qualche altro insetto o acaro che prima non faceva grossi danni. Questo spiega come mai, nei decenni del dopoguerra si sia passati in alcuni tipi di frutteti da zero a decine di trattamenti all’anno, in una spirale che rischiava davvero di fare danni irreparabili.
La soluzione del problema è tutt’altro che facile e per gli impianti commerciali è inevitabile ricorrere a compromessi fra l’esigenza di produrre frutti vendibili e quella di non avvelenare troppo l’ambiente, i consumatori e gli stessi operatori. Per certi aspetti, quella che chiamiamo “agricoltura biologica”, soggetta a controlli e certificazioni, è anch’essa un compromesso, una sorta di male minore rispetto alla deriva chimica che negli anni di fine secolo scorso stava davvero avvelenando campi e uomini.
Per il frutteto famigliare e per chi mira all’autosufficienza alimentare i problemi sono in scala ridotta, ma il mondo è fatto di vasi comunicanti e se si vive in zone di agricoltura intensiva non è facile sfuggire ai danni di un equilibrio biologico compromesso.
Anche nel coltivare, l’azione di ognuno ricade su tutti: un buon motivo per evitare il più possibile di peggiorare le cose. Possiamo cominciare a lavorare per un mondo più sano e pulito anche dal giardino di casa nostra.

Pubblicato su La Guida del 3-11-022