Mon député

Decenni fa, mi è capitato di girovagare in bicicletta per stradine secondarie dell’interno della Bretagna. Allora, soprattutto su percorsi così marginali, anche i ciclisti erano pochi ed era naturale salutarsi e aggregarsi ai casuali compagni di pedalata, per fare qualche tratto in compagnia. Arrivati a un bivio, mentre consultavamo la cartina per scegliere la strada giusta, si era affiancato un pedalatore locale. Invece di spiegarci il percorso, ci aveva detto di seguirlo ed era iniziata così una gita in piacevole compagnia. Della lunga chiacchierata col nostro occasionale compagno, oltre al bell’accento bretone e alla meraviglia dei luoghi, mi è restato impresso l’intercalare costante: ogni volta che vedeva qualcosa che non andava, il cicerone ciclista ripeteva come un ritornello: dovrò dirlo a “mon député”. L’asfalto non era perfetto, mancava un segnale a un bivio, oppure il discorso era scivolato su questioni politiche, previdenziali, economiche di più ampio respiro: la conclusione era sempre comunque la stessa: appena lo incontro dovrò dirlo a “mon député”.
All’inizio avevo pensato che il nostro simpatico compagno di viaggio fosse un amministratore o che ricoprisse qualche carica pubblica, ma lui mi aveva detto sorridendo di aver lavorato per tutta la vita come operario ai cantieri navali. Il suo rivolgersi al politico che aveva delegato a rappresentarlo non derivava da una posizione sociale privilegiata o da una qualche carica, ma, al contrario, era proprio la prerogativa del normale cittadino. Il député, preceduto dall’aggettivo possessivo, indicava un rapporto di fiducia reciproca e una relazione abituale, un po’ come capita quando si dice: ho un problema di carie e devo andare dal “mio” dentista, o l’impianto fa i capricci e devo telefonare al “mio” elettricista.
A distanza di decenni mi è rimasto impresso questo intercalare, che per me è diventato quasi simbolico della democrazia rappresentativa, quel fragile e pericolante meccanismo che ci separa dal pericolo di dittature o di derive di vario tipo.
Ci ripensavo proprio in questi giorni di frustrazione e rabbia repressa, sentendo diversi amici concludere amaramente le loro considerazioni sul pessimo stato della nostra democrazia con la decisione di non andare più a votare: “finora ho sempre fatto il mio dovere di elettore, ma adesso è davvero troppo…”. Mi ha stupito e anche un po’ preoccupato la coincidenza, in questi tempi in cui scambi di idee e incontri sono merce rara, di simili conclusioni da interlocutori diversi e per gli strani giochi associativi dei nostri neuroni mi è tornata chiara in mente l’immagine del mio occasionale compagno di pedalate e quel suo intercalare.
Resto convinto che la democrazia rappresentativa sia ancora l’unica forma possibile per conciliare libertà personale e responsabilità sociale. Non è forse la migliore, ma, che ci piaccia o no, è l’unica. Abbiamo tutti sotto gli occhi a cosa e a chi ha portato la gestione attraverso la “rete”, che avrebbe dovuto regalarci la democrazia “diretta”.
D’altra parte, immaginare una rete che liberi è difficile: la rete imprigiona, o nelle migliore delle ipotesi, ci si impiglia.
Non ci resta, quindi, che farci sentire da chi abbiamo delegato a rappresentarci, anche e soprattutto in questi tempi di democrazia pericolante, in cui è facile cadere nelle opposte tentazioni della chiusura e della rabbia sterile. È proprio in queste occasioni che diventa importante far sentire la propria voce, con gentilezza e rispetto, ma anche con chiarezza e decisione.
I giovani, e più in generale chi usa i diversi “social”, possono utilizzare questi mezzi, innovativi, ma forse dispersivi. Noi imbranati tecnologici dobbiamo ancora usare la voce o la parola scritta. In ogni caso, è bene, sia per la salute nostra che per quella della nostra democrazia, non tenersi dentro emozioni, risentimento, idee, proposte, e soprattutto, il dissenso. “Io non sono d’accordo” è una frase bella e importante, una presa di distanza che serve anche al nostro “député” per tenere i piedi per terra, capire sentimenti, difficoltà e paure del popolo che rappresenta. Serve anche a far capire (e per questo non occorre disturbare il concetto di intelligenza, basta un po’ di furbizia spicciola) che la sommatoria di queste critiche e prese di posizione contrarie si tradurrà, alla prossima tornata elettorale, in voti mancati, alla persona e al partito.
E allora forse, se i nostri “non sono d’accordo” saranno tanti e chiari, può darsi che chi tiene il timone percepisca le indicazioni e cambi rotta. In fondo, democrazia significa proprio questo sentirsi tutti nella stessa barca e aiutare piloti e comandanti a tenere la direzione giusta.

Pubblicato su La Guida del 3 febbraio 2022