Coltivare la terra 8 Pomodori di contrabbando

Una signora di Valloriate mi raccontava, anni fa, che un tempo non si coltivavano pomodori in paese. Solo dopo la trebbiatura del grano, per festeggiare il raccolto, se ne comprava qualcuno. L’insalata dei preziosi frutti rossi, innaffiata da qualche bicchiere di vino dello stesso colore, era condivisa fra tutti in allegria ed era il modo per ripagare i vicini per l’aiuto nel pesante lavoro di battitura e pulitura dei cereali.
In quegli anni di inizio Novecento moltissimi abitanti del piccolo paese della valle Stura andavano regolarmente in Francia per i lavori stagionali in agricoltura. La meta era per quasi tutti la campagna attorno a Hyères, dove si coltivavano fiori, ortaggi e alberi da frutta. Al ritorno si portava a casa qualche soldo, indispensabile per integrare i magri redditi domestici, e anche qualche nuova conoscenza. L’emigrazione allarga gli orizzonti e le idee e, a volte, favorisce anche il travaso di abilità e nuove tecniche.
Così un giorno anche a Valloriate erano arrivate, dentro un ombrello, le prime piantine di pomodoro. I doganieri, allora, mi aveva detto la signora, “non erano gentili” con gli emigranti stagionali: confiscavano le bottiglie, le banane e altre cose buone che chi ritornava portava in regalo a parenti e amici, controllavano i bagagli e guardavano dappertutto. Ma non avevano pensato di aprire il grande ombrello nero in cui, piantate dentro fettine di patate per conservare l’umidità, suo nonno (classe 1874) aveva nascosto le piantine di pomodoro e qualche “enta” di melo e pero.
Mi era piaciuta molto questa storia dei pomodori e degli innesti di contrabbando: chissà se qualche vecchio albero da frutta, di quei pochi che ancora resistono nei prati vicino alle borgate, è ancora nato dall’unione di un selvatico locale con qualche gemma arrivata dalla Costa Azzurra. E chissà se in qualche orto di Valloriate qualcuno si ostina ancora a riseminare, anno dopo anno, i discendenti di quei pomodori arrivati “de sfross” in un ombrello.
La storiella mi dà l’occasione per una breve divagazione su un tema che considero importante anche nell’orto e nel frutteto casalingo: prodursi, almeno in parte, i propri semi e conservare vecchie varietà di alberi da frutta. Non si tratta di far concorrenza ai vivaisti o di un rigurgito di autarchia, ma del senso giusto di quella parola spesso abusata: biodiversità e, soprattutto, di arrivare, piano piano, a selezionare frutta e verdura che ci piace e si adatta bene a clima, zona e terreno.
C’è anche la soddisfazione di fare qualche passo verso l’autosufficienza, quel provvedere a se stessi che non ha niente a che vedere con l’illusione autarchica di “bastare” a se stessi, ma significa mettere un primo tassello per cercare di raggiungere l’autonomia (parola greca che ha il significato di vivere secondo le proprie leggi, essere cioè in grado di dare a se stessi le proprie regole di vita). Il concetto meriterebbe una lunga riflessione, ma penso sia meglio tornare a semi e piantine.
Pomodori, zucche, fagioli, piselli e ceci si prestano facilmente alla produzione casalinga di semi. Possiamo così selezionare e conservare nel tempo le varietà che preferiamo e meglio si adattano alle caratteristiche di esposizione, giacitura e fertilità del nostro orto.
La cosa più importante è partire da piante che hanno dato buona prova di sé, con frutti buoni e sani. Nel caso di pomodori e zucche è facile recuperare qualche seme e conservarlo fino al momento giusto per affidarlo al terreno. I primi richiedono una semina in ambiente protetto e un successivo trapianto, mentre le zucche possiamo metterle direttamente in pieno campo quando siamo sicuri che non ci saranno più gelate. Noi coltiviamo da decenni le nostre zucche non nell’orto, ma nella zona appartata in cui facciamo il compost, proprio in prossimità dei cumuli, semplicemente alternando ogni anno la posizione di semina. La distanza dall’orto garantisce che non ci sia impollinazione con le zucchine (che imbastardirebbe la discendenza) e soprattutto le piante approfittano della sostanza organica del compost, crescendo rigogliose e coprendo i cumuli. La zucca è molto vorace, ma è buona e generosa, ed è senz’altro l’ortaggio con il miglior rapporto fra resa e impegno. Costo zero, lavoro molto poco, per una produzione di molte decine di chili, più che sufficienti per le esigenze famigliari.
Il pomodoro richiede più impegno, fra semina, trapianto, sfemminellatura (togliere i but) e legature ai sostegni, ma ricambia ampiamente gli sforzi e le attenzioni. I frutti rossi sono per me il simbolo stesso dell’estate, sembrano concentrare il calore e anche il colore del sole, restituendocelo prima con le preziose insalate e poi, nel corso dell’anno, sotto forma di conserve e sughi.
Prodursi i propri semi significa anche sottrarsi alle dinamiche di selezione dell’industria sementiera, che non sempre vanno nella direzione che coincide con i nostri gusti o interessi. E’ importante capire che la parola “miglioramento genetico” ha sempre due facce e che ogni progresso in un certo settore comporta sempre una perdita in qualche altro campo. Se, per esempio, il mio obiettivo è far crescere la quantità prodotta, facilmente avrò una perdita di qualità, se lo scopo è la resistenza a qualche malattia o parassita avrò frutti meno gustosi o più coriacei. Il pomodoro è colpito, oltre che dalle malattie fungine (riassunte col termine piemontese di “marìn”) anche da vari virus (sempre loro!) fra cui quello della bronzatura. Mentre i funghi si possono contenere col classico verderame e con qualche accorgimento, con i virus, come ben sappiamo, la lotta è molto più difficile. La ricerca genetica si concentra allora sul produrre nuove varietà resistenti, che però spesso hanno gusto e consistenza non paragonabili a quelle tradizionali. Se nell’orto famigliare non ho problemi sanitari mi conviene quindi seminare i buoni vecchi pomodori conservati e selezionati nel corso degli anni o, comunque, scegliere varietà conosciute e sperimentate anche a livello culinario. Altrimenti correrò il rischio di raccogliere frutti bellissimi e sani che trasformati in insalata ricorderanno più il gusto della rapa di quello del succoso ortaggio estivo.
Le parole, soprattutto quelle che suonano bene e hanno un aspetto gentile, nascondono spesso fregature e anche il termine “miglioramento” non fa eccezione, soprattutto se associato all’aggettivo “genetico”.

Pubblicato su La Guida del 29-4-021