Coltivare la terra 5: concimare secondo natura

Mantenere la fertilità del terreno è sempre stato il problema principale, fin dai tempi remoti della nascita dell’agricoltura. Non a caso, i primi nuclei importanti di agricoltori stabili, e anche le prime civiltà, sono nate vicino ai grandi fiumi, dove le piene periodiche portavano particelle di limo o argilla, in pratica terra nuova che ripristinava automaticamente la quantità di elementi minerali asportati dalle colture precedenti. Popoli meno fortunati, da questo punto di vista, erano costretti al nomadismo e dovevano spostarsi continuamente, invadendo spesso territori altrui. Bruciavano o dissodavano aree forestali, le utilizzavano qualche anno, fino ad esaurire i terreni e poi dovevano cercare nuovi campi, occupando con le buone o con le cattive zone spesso già abitate. Una precarietà e un continuo stato di guerra che impediva il lento consolidarsi di quella che noi chiamiamo civiltà e che caratterizzava le tribù che erano definite “barbare”. La storia può essere letta anche dal punto di vista della possibilità e della capacità di ogni popolo di prodursi le risorse alimentari per vivere e prosperare e, in ogni caso, la vita sociale, le istituzioni, l’arte, sono rese possibili dal soddisfacimento delle esigenze primarie.
Fin dall’antichità si era capito che il letame di animali allevati era un prezioso aiuto per la fertilità del terreno. Negli Statuti di Valgrana del 1415 un apposito articolo obbligava i pastori forestieri a far “giacere nei campi o nei prati” le loro pecore durante la notte, in modo da concimare, restituendo così quanto asportato col pascolo. La funzione fertilizzante era ritenuta così importante che l’animale di pastori estranei che pernottava nei terreni di Valgrana acquisiva una sorta di diritto di cittadinanza ed era considerato al pari di quelli locali. In caso di multe per danni, il raddoppio della sanzione era riservato agli animali “non iacentes in Valgrana”.
Sempre nel medioevo era iniziata la pratica delle rotazioni con leguminose, che poteva sostituire l’improduttivo “riposo” a cui si era costretti per ridare vita a campi troppo sfruttati. Bisogna però aspettare la metà del 1800 per arrivare a capire del tutto i principi nutrizionali delle piante, grazie soprattutto a un chimico tedesco, Justus Liebig.
I vegetali che fanno la fotosintesi sfruttano l’anidride carbonica dell’aria e l’energia del sole per fabbricarsi il cibo, ma hanno comunque bisogno di prendere dal terreno attraverso le radici gli elementi minerali, soprattutto l’azoto, il fosforo e il potassio, oltre a molti microelementi, indispensabili, anche se in minime quantità. Questa scoperta ha permesso di capire le esigenze delle colture, ma ha anche aperto la strada a una pericolosa deriva “chimica”, come aveva già intuito, negli ultimi tempi della sua esistenza, lo stesso Liebig. Dare alle piante solo elementi minerali è certo più comodo e veloce, ma è comunque rischioso e innaturale, un po’ come se noi sostituissimo colazione, pranzo e cena con pillole contenenti carboidrati, proteine e vitamine. Al di là della tristezza di un’alimentazione artificiale che ci priverebbe del piacere della tavola e della socialità connessa con la preparazione e assunzione di cibo e bevande, si correrebbe sempre il rischio di sbagliare i calcoli e di incorrere in eccessi o carenze. I cicli vitali sono infatti complessi e dipendono da molte variabili difficili da interpretare o prevedere. Meglio quindi, almeno nel campo dell’agronomia, affidarci alla saggezza della natura, piuttosto che alla presunzione della conoscenza. In altre parole, conviene dotare il terreno della giusta quantità di materia organica che degradandosi potrà fornire alle piante gli elementi minerali necessari per svilupparsi in modo armonico. La sostanza organica, di origine vegetale o animale, è infatti composta da macromolecole, cioè da molecole molto grandi che nel tempo perdono lentamente i pezzi, rilasciando quindi elementi minerali che le piante possono assorbire. Le nostre coltivazioni hanno quindi a disposizione una sorta di buffet a self service e possono servirsi secondo i loro gusti e le loro necessità, senza dover sottostare alle approssimative ricette imposte dai moderni concimi di sintesi.
Lo stesso Liebig ha avuto, al termine della sua vita, un ripensamento e intuito i danni che la deriva chimica da lui innescata poteva causare all’agricoltura e all’ambiente. Lo scienziato tedesco era infatti una persona geniale e poliedrica, inventore, tra l’altro degli estratti di carne (i famosi “dadi” a cui ancora associamo il suo nome, con le relative figurine illustrate, antesignane delle forme moderne di pubblicità). Si è interessato della fabbricazione degli specchi, del modo di sbiancare i tessuti con l’ozono e la sua legge del minimo è studiata ancor oggi, oltre che in campo agronomico, anche dagli economisti.
Forse è proprio delle grandi menti saper intravvedere gli sviluppi futuri della realtà presente e anche riconoscere i propri errori. Al termine della sua straordinaria carriera (iniziata in modo poco promettente, con l’espulsione dal liceo e una laurea mancata) l’illustre studioso era preoccupato del fatto che gli agricoltori, seguendo le illusioni della chimica, avrebbero “dimenticato il suolo” e “il meraviglioso concatenamento delle leggi che uniscono la vita alla superficie della terra, rinnovandola continuamente”. Con un’onestà pari alla sua competenza scientifica ammetteva “volentieri” di aver sbagliato nel credere che i concimi chimici potessero sostituire la concimazione organica, e di “aver peccato contro la saggezza del Creatore”.
La scoperta del suo approccio iniziale errato, invece di avvilirlo, lo aveva fatto sentire “come una persona che ha ricevuto una nuova vita” in grado finalmente di capire che “tutti i processi di coltivazione si possono spiegare sulla base delle leggi naturali che li governano”. Invece dello sconforto per i lunghi anni di ricerche spesi a inseguire una facile soluzione chimica al problema della fertilità (ma i suoi studi sono stati comunque fondamentali per capire come si nutrono le piante) la consapevolezza degli errori commessi gli aveva regalato la gioia di aver finalmente afferrato “la vera bellezza dell’agricoltura, con i suoi stimolanti principi intellettuali”.
Ci sarebbe bisogno ancora e soprattutto oggi, in questi tempi in cui il panorama scientifico è spesso offuscato da personalismi, prese di posizione aprioristiche e ansia di protagonismo, di persone capaci di coniugare la brillantezza di una mente aperta e creativa con l’onestà intellettuale e la capacità di riconoscere i propri errori.

Pubblicato su La Guida dell’8-4-021