Coltivare la terra 6: preparare una casa accogliente per le colture

Mantenere un buon livello di fertilità del suolo è indispensabile soprattutto nell’orto famigliare, in cui lo spazio ristretto obbliga a sfruttare intensamente il terreno, spesso con più colture nella stessa stagione. La concimazione migliore è anche in questo caso quella organica, che, oltre a nutrire i vegetali coltivati, migliora lentamente la struttura, cioè lo stato di aggregazione delle particelle del terreno. Le grandi molecole organiche, oltre a funzionare come un serbatoio a lenta cessione di elementi minerali, hanno infatti la straordinaria capacità di legare i terreni troppo sciolti e nello stesso tempo di alleggerire quelli troppo tenaci. Migliorano quindi sia un campo troppo sabbioso e quindi sciolto e inconsistente, incapace di trattenere acqua e sali minerali, che uno argilloso, pesante, difficile da lavorare e troppo tenace.
Molto spesso identifichiamo l’idea della concimazione con quella della nutrizione, ci preoccupiamo cioè di “dar da mangiare” alle piante, come faremmo con gli animali domestici. In realtà, i vegetali fanno la fotosintesi, e quindi ci pensano in parte da soli a fabbricarsi il cibo. Noi dobbiamo preoccuparci piuttosto di rendere accogliente la loro dimora: la terra per le piante non è tanto il piatto in cui mangiano, ma la casa in cui vivono. Certo, l’energia del sole non è sufficiente per nutrirle, ci vogliono anche gli elementi minerali, ma per assorbirli servono buone radici e queste si sviluppano bene solo se la tessitura del terreno è equilibrata e la struttura è buona.
La particella di argilla è mille volte più piccola di un granello di sabbia e quindi ha una superficie molto maggiore a parità di volume. Per chi ama la matematica si potrebbe dire che il volume è una funzione cubica mentre l’area procede al quadrato. Altrimenti è sufficiente immaginare mille pacchetti di latte da un litro per rendersi conto che la loro superficie esterna è molto maggiore di quella del metro cubo di volume corrispondente. Più sono piccole le particelle di terreno e maggiore è, in proporzione, la loro superficie e quindi la capacità di assorbimento. Sia l’acqua che gli elementi minerali sono infatti “incollati” all’esterno delle particelle del terreno grazie a forze elettriche.
La piccolissima argilla riesce quindi a legare e trattenere molto meglio sia l’acqua che gli elementi fertilizzanti, ma è più difficile da gestire e lavorare. Un campo argilloso troppo bagnato si trasforma in “pauta” e asciuga molto lentamente, impedendo la lavorazione e anche l’accesso per lunghi periodi. Il consiglio piemontese “pitost che pisté per mol sta a cà a fé ’l fol” suggerisce proprio di evitare il calpestamento e la lavorazione di terreni bagnati. Operazione dannosa soprattutto con motocoltivatori e fresatrici meccaniche: la rotazione veloce delle zappette impasta l’argilla che quando asciuga diventa un vero e proprio mattone. Al contrario, un terreno troppo sabbioso asciuga in fretta e si lavora più facilmente, ma non trattiene acqua e sali minerali, obbligandoci a innaffiare spesso e fornire sostanze nutritive.
Un apporto di sostanza organica è la cura per entrambe le situazioni e riesce a migliorare lentamente le caratteristiche fisiche fornendo nel contempo le sostanze minerali di cui le piante hanno bisogno. E’ evidente che i terreni migliori sono quelli che si definiscono “di medio impasto”, composti cioè da una giusta percentuale di sabbia, limo e argilla, ma, nella pratica, dovremo adattarci alla situazione in cui ci troviamo. Quarant’anni fa il nostro orto famigliare era su una stretta fascia quasi pianeggiante vicino alla borgata in cui vivevamo, pochi centimetri di terra grassa incollata con le unghie alla roccia madre del pendio scosceso; poi siamo passati a una cascina nel fondovalle, con terreno fluviale sciolto e ricco di ciottoli e ora combattiamo con le tenaci argille moreniche delle colline cervaschesi. Non sempre possiamo scegliere il terreno ideale per fare l’orto, ma possiamo curare ogni opposta anomalia con lo stesso rimedio: un costante apporto di sostanza organica.
Quando parliamo di concimazione organica ci viene spontaneo pensare subito al letame, anche perché per secoli è stato proprio il “concime di stalla” a garantire la fertilità dei suoli. In realtà dovremo pensare piuttosto ai boschi o alle praterie naturali, che sono perfetti esempi di mantenimento della fertilità e di recupero di ogni elemento utile alla vita. Le foglie che cadono, i rami spezzati, le erbe secche, lentamente si degradano per poi ricostruire le grandi molecole dell’humus, in un ciclo di morte e resurrezione che garantisce il proseguire della vita e il continuo rinnovamento.
La natura non spreca mai niente e questo dovrebbe insegnarci a fare altrettanto. Chi pensa che i problemi ambientali si risolvano obbligando a rottamare e sostituire continuamente motori, caldaie, attrezzi ha di certo più a cuore l’interesse economico che quello ecologico e dimostra di non aver capito molto della grande lezione della natura.
La coltivazione dell’orto inizia proprio dalla creazione dell’angolo del compost, in cui trasformeremo gli scarti della cucina, i residui di potatura, i tagli del prato, le foglie degli alberi in prezioso humus. Un processo naturale che richiede pazienza e un minimo di cura. Per abbreviarne i tempi e migliorare il risultato possono essere molto utili i lombrichi, alleati davvero preziosi in tutte le operazioni di compostaggio.
Agli inizi degli anni 80 dello scorso millennio erano diventati di moda gli allevamenti di lombrichi rossi californiani e un amico mi aveva regalato una manciata di quei piccoli “vermi”. Sono passati oltre quarant’anni, ho cambiato diverse volte casa e orti, ma i lombrichi mi hanno sempre seguito nei vari traslochi e i discendenti di quei pochi esemplari ricevuti in dono continuano a proliferare e a regalarci ogni anno tutto il concime che ci serve, digerendo e trasformando in prezioso humus diversi quintali di residui vegetali.

Pubblicato su La Guida del 16-4-021