Coltivare la Terra 4: l’agricoltura di montagna

Coltivare la terra nel modo giusto e corretto significa collaborare con la natura inserendosi nelle dinamiche dei cicli biologici in modo da alterarli il meno possibile. I nostri sforzi devono andare quindi nella stessa direzione dei processi vitali che regolano i delicati equilibri degli ecosistemi. Come ci insegna la fisica elementare, dobbiamo tirare dalla stessa parte, non in senso opposto, altrimenti le forze si annullano, invece di sommarsi.
L’agricoltura dei secoli passati, pur con tutti i limiti delle scarse conoscenze, della pressione demografica spesso eccessiva e della povertà di mezzi tecnologici ci ha consegnato terreni fertili e un ambiente poco contaminato. Le scorciatoie chimiche, i progressi spesso pericolosi della genetica, la rivoluzione meccanica hanno minacciato o addirittura stravolto questi delicati equilibri e compromesso un capitale biologico che ci era stato trasmesso intatto dalle generazioni precedenti.
La nascita di forme di agricoltura naturale, biologica, biodinamica, la permacoltura, le varie forme di non-lavorazione del terreno sono tentativi di opporsi a queste derive e sono in genere reazioni positive e motivate agli eccessi dell’agricoltura industriale. Come capita sovente, però, queste tendenze possono essere dettate da mode superficiali, proposte da guru improvvisati o essere il risultato di abili strategie di marketing per vendere a caro prezzo prodotti commerciali.
L’agricoltura del recente passato nelle nostre valli era per forza di cose naturale e rispettosa dell’ambiente, molto prima della comparsa di tutte queste “nuove” forme di coltivazione della terra. Come capita spesso, scopriamo l’acqua calda, gli diamo un nome che suona bene, condiamo il tutto con un po’ di teoria e siamo convinti di aver creato qualcosa che prima non c’era, che ci affrettiamo a brevettare per goderne i benefici esclusivi.
Non vorrei con questo essere frainteso: sono convinto che reagire ai pericoli e ai disastri dell’agricoltura industriale sia necessario e io stesso sono stato parte attiva della prima associazione di agricoltori biologici del cuneese, una quarantina d’anni fa. Ma dobbiamo renderci conto che non stiamo inventando nulla di nuovo, se mai stiamo ritornando, con maggiori conoscenze e consapevolezza, sul sentiero tracciato dai nostri antenati.
In questo senso, le nostre valli sono una risorsa e un patrimonio da conservare, recuperare, usare e valorizzare. La lontananza dai centri industriali, la conformazione del terreno, spesso in pendenza, il naturale ricambio di aria, la purezza delle acque sono un valore aggiunto che rende unico e prezioso il nostro ambiente montano.
Per prima cosa è necessario essere consapevoli di questa fortuna ed evitare pratiche che possano rovinare i delicati equilibri della natura. Non dobbiamo cioè importare modelli di agricoltura industriale, frutteti specializzati di grandi dimensioni con portainnesti deboli e varietà sensibili ai parassiti e neppure forme di zootecnia intensiva o di orticoltura su scala troppo vasta. Evitare l’uso di diserbanti che lasciano residui nel terreno e di insetticidi che rompono sempre l’equilibrio fra un parassita e i suoi nemici naturali, obbligando a moltiplicare gli interventi chimici.
Poi, però, la terra dobbiamo usarla, cioè coltivarla. L’unica forma di conservazione della natura è infatti il suo corretto utilizzo, non certo l’abbandono. I boschi devono essere tagliati a tempo e ora, i prati falciati, i campi coltivati, gli alpeggi pascolati. Il non utilizzo è in questi anni il peggiore dei nemici della montagna, ancor più di eventuali approcci colturali poco rispettosi dell’ambiente, per fortuna rari.
Fra le parole inglesi che sopporto meno c’è proprio wilderness, che dovrebbe esprimere l’idea della natura selvaggia e incontaminata, ma spesso significa solo degrado, incuria e abbandono. Non mi piace troppo anche l’abusato termine “biodiversità” con cui si condiscono spesso a sproposito tutti i discorsi su questo tema. La biodiversità è importantissima quando significa recuperare vecchie varietà di fruttiferi a rischio scomparsa, portainnesti locali e selvatici, cereali antichi e preziosi, come il farro monococco o il frumentìn, razze ovine autoctone, come la sambucana. L’orticoltore che si produce i propri semi di insalata, zucche o pomodoro selezionando e conservando magari da anni le piantine migliori sta lavorando in pratica per la biodiversità, mentre l’abbandono dei terreni non ha nulla a che vedere con questo concetto e produce solo degrado, pericoli e conseguenze negative.
Non possiamo rallegrarci del progressivo e difficilmente arrestabile processo di inselvatichimento delle nostre valli e neppure confondere l’incuria col ritorno alla natura. La buschina, il triste bosco da invasione che ricopre ormai gran parte delle nostre montagne ha sostituito col suo monotono verde cupo tutta la tavolozza dei colori e cancellato con la sua uniformità le innumerevoli sfumature del paesaggio agrario modellato dal secolare lavoro di generazioni. Il proliferare incontrollato di animali selvatici rende difficile o impossibile l’agricoltura e la pastorizia per quei pochi che ancora resistono nelle medie e alte valli. Una burocrazia insensata e insensibile contribuisce allo spopolamento e all’abbandono del territorio. Una montagna inselvatichita e abbandonata a se stessa non è certo un bene per l’ambiente e non contribuisce né alla vera biodiversità né alla salvaguardia del creato.
Il degrado delle terre alte non più utilizzate né coltivate non è neppure rispettoso della nostra storia, delle tradizioni di un popolo alpino che ha sempre saputo, gestendosi autonomamente, ricavare il necessario dalla natura senza intaccare il patrimonio che garantiva la sussistenza delle generazioni future. Salvare l’ambiente significa salvare la montagna antropizzata, fatta di borgate, sentieri, uomini, donne, animali, fontane, forni, prati e campi coltivati, rispettare gli sforzi di chi ci vive e lavora, creare le condizioni per un ritorno.
Coltivare la terra con attenzione e cura è una forma di prevenzione per i disastri ambientali che ormai si ripetono regolarmente. Eventi meteorici estremi sono ormai sempre più frequenti e l’abbandono dei terreni di montagna contribuisce ad amplificare i possibili danni anche nei fondovalle. Non è necessario andare troppo indietro nel tempo per avere la conferma di quanto possa essere pericoloso non prendersi più cura del territorio. Come in ogni altro settore, la mancata manutenzione ordinaria non è mai un risparmio e richiederà interventi straordinari più costosi, senza contare i pericoli per persone e animali.
Coltivare correttamente la terra e praticare la pastorizia è la vera manutenzione della montagna ed è il miglior investimento per tutti noi e per l’ambiente.

Pubblicato sulla Guida del 26-3-021 inserto Agricoltura e ambiente