Parlare di parole 4

In questi tempi in cui la nostra democrazia, fra emergenze, decreti, taglio dei parlamentari e disinteresse generalizzato non se la passa troppo bene, possiamo consolarci con la certezza che la lingua rimane democratica: siamo tutti noi che la facciamo vivere e la conserviamo. Anche se le varie dittature ci hanno sempre provato (da noi il fascismo aveva cercato di cancellare le parole straniere e di eliminare il lei sostituendolo col voi) prima o poi devono arrendersi all’evidenza che una lingua non può essere imposta dall’alto.
Noi italiani abbiamo anche in questo un pizzico di sana anarchia e non esistono da noi, a differenza di altri paesi come la vicina Francia, organismi preposti a regolare la lingua decidendo d’ufficio cosa è ammesso e cosa no, cosa è giusto e cosa è sbagliato. Da noi è l’uso (prolungato, accettato e condiviso) che fa la regola e questo, a mio giudizio, è saggio, ma ci responsabilizza tutti.
La lingua è un bene comune la cui conservazione dipende da tutti noi, da come la usiamo. Non sto parlando solo dell’italiano, ma anche del piemontese, dell’occitano, di tutte le lingue locali che costituiscono un patrimonio da tutelare e valorizzare. Ben coscienti che, come per ogni altro patrimonio (il territorio, il paesaggio, l’ambiente) l’unica forma di tutela è il corretto utilizzo. Un bosco si conserva se lo si taglia a tempo e ora, un prato se si falcia, una lingua se si parla e si scrive.
La “norma”, cioè l’insieme di regole accettate da una comunità di parlanti è necessaria e flessibile, deve cioè adattarsi ai cambiamenti, che in questi ultimi anni si sono velocizzati enormemente. Nei secoli scorsi l’italiano era rimasto abbastanza stabile, per il semplice motivo che di fatto non era parlato. Se tengo l’auto in garage o un vestito nell’armadio si logorano di meno. Questo ci regala la possibilità di capire abbastanza facilmente, ad esempio, l’italiano medievale e ci consente di leggere Dante o Petrarca senza troppe difficoltà. All’Unità di Italia, nel 1861, una percentuale ridicola di nostri connazionali parlava o capiva l’italiano. L’obbligo scolastico, la leva obbligatoria e, più tardi, la radio e la televisione hanno invertito questa tendenza e adesso i social hanno accelerato enormemente la velocità delle innovazioni e cambiato la stessa modalità di comunicazione.
Sono uomo dello scorso millennio, mi sono adattato a computer e internet, ma non riesco proprio ad usare gli smartphone, le app e i social. Lo considero però un mio limite e non credo affatto che i problemi della lingua e della società derivino dalla tecnologia. Internet e affini sono mezzi, semplici contenitori e sono fatti di quello che ci mettiamo dentro. Possiamo riempirli di meraviglie o di porcherie, dipende da noi. Non sono i social o la rete il male del secolo e neppure la causa della decadenza del linguaggio o della società.
E’ vero però che sono mezzi potenti, veloci e che possono sfuggirci di mano.
La potenza implica sempre un certo grado di pericolosità: mi faccio più facilmente male col trattore che con la zappa. L’enorme quantità di informazioni disponibili senza fatica, parcellizzate, atomizzate e predigerite, mi può dare l’illusione della conoscenza, può rendere difficile giudicare cosa è corretto e cosa è falso. In qualsiasi disciplina, sia teorica che pratica, esiste un insieme di conoscenze e competenze basilari che sono necessarie anche solo per capire e giudicare cosa si sta facendo. Molte di più sono poi indispensabili per farsi un’idea propria e per fare eventuali critiche.
Credo però che il pericolo maggiore insito in queste nuove tecnologie sia la potenziale perdita di quella che, con un bel termine, viene chiamata “pazienza cognitiva”. La consapevolezza, cioè, che ogni conquista richiede uno sforzo lento e prolungato, un’applicazione costante e sovente tempi lunghi. La civiltà contadina sapeva bene che la natura non ha fretta e viveva l’attesa senza ansia. La ripetitività stessa dei lavori manuali o dello spostarsi a piedi era un allenamento alla pazienza. La facilità con cui oggi otteniamo qualsiasi informazione può indurci a rifuggire da ogni sforzo ed evitare ogni fatica, ma così facendo ci condanniamo, oltre che all’incompetenza, anche all’infelicità.
L’impegno, a volta anche doloroso che richiede ogni traguardo raggiunto è ampiamente compensato dalla soddisfazione, dalla gioia e dal senso di serenità che dà aver perseverato fino alla meta. Chiunque abbia fatto un lungo viaggio a piedi o in bici lo ha provato sulla propria pelle.
Inoltre, la possibilità di avere tutto subito e senza sforzo può illuderci di sapere e di aver capito ogni cosa e ci spinge a classificare, etichettare, giudicare prima ancora di esserci fatta una opinione fondata. Sembra quasi che si abbia fretta di prendere posizione, prima di aver capito o almeno di essersi fermati un momento a riflettere.
Il rischio di cercare soluzioni semplicistiche, immediate e indolori per una società sempre più complessa e problematica è quello di arrivare a una polarizzazione estrema, in cui si vede il mondo in bianco e nero, ignorando tutta la scala dei grigi. Giusto o sbagliato, buoni o cattivi, intelligenti o stupidi (va da sé che chi pensa in questi termini dà per scontato di essere sempre dalla parte giusta della barricata).
Un buon rimedio è quello di imporsi una doverosa lentezza nel formulare giudizi, coltivando il dubbio, ascoltando pareri diversi, mettendo in crisi le proprie certezze.
La mancanza di interlocutore diretto può anche spingerci sui social o in rete a dire o scrivere cose che in un confronto faccia a faccia non diremmo mai e quindi è buona norma evitare di pubblicare testi, immagini o commenti che non saremmo pronti a dire o far vedere a quattr’occhi. La rete ha buona memoria, soprattutto per le cose negative, quindi dobbiamo tenerne conto ed evitare di affidarle parole e giudizi di cui poi potremmo pentirci.
Tutti ripetono che stiamo vivendo nella società della comunicazione. Non so se sia vero, ma nel dubbio è meglio far bene attenzione a come comunichiamo, a quello che diciamo e a come lo diciamo.
(continua)

Pubblicato su La Guida dell’11-2-021