Le patate e il virus

Se questi fossero tempi normali, sarebbe quasi ora di preparare il terreno per piantare le patate. Se i granatìn fossero aperti, bisognerebbe procurarsi i tuberi da seme, toglierli dai sacchi e trasferirli in cassette in attesa del momento giusto per metterli a dimora.
Chi lo fa d’abitudine, sa bene che non conviene ripiantare le patate avanzate dall’anno prima, perché “fanno poco”. La scarsa resa dei tuberi riprodotti è dovuta, manco a dirlo, a un virus, trasmesso da insetti di quel gruppo di specie che nella nostra classificazione casalinga definiamo “pui”, per distinguerli dalle altre “baboie”.
Anche chi coltiva zucchini vede spesso gli effetti dei virus che deformano foglie e frutti e fa attenzione nella raccolta per evitare di contagiare col coltello le piante ancor sane. Altrimenti, il virus si moltiplica in modo esponenziale (per usare un’espressione che piace agli epidemiologi), e addio produzione.
Anche se finora non ci abbiamo fatto troppo caso, noi abbiamo spesso a che fare con questi parassiti indesiderati, con cui, ci piaccia o no, siamo costretti a convivere. La “febbre” al labbro, che ci colpisce dopo una giornata sugli sci o prima di un esame impegnativo è dovuta a un virus che quasi tutti ci portiamo dentro fin da piccoli, regalo magari del bacio affettuoso della zia al nipotino, e che si risveglia in occasione di stress fisici o mentali.
Anche prima che diventassero così di moda da occupare quasi ogni spazio nei mezzi di informazione, mi hanno sempre incuriosito i virus, questi strani esseri mille volte più piccoli di un batterio che stanno al confine fra vita e non vita. Un pezzo di codice genetico che diventa “vivente” solo se trova un ospite che (magari non troppo volentieri) lo accoglie. Una specie di chiavetta usb che deve entrare in un computer per poter eseguire i suoi programmi, vivere e riprodursi.
Penso sia significativo che noi, che ci consideriamo il punto più alto della scala evolutiva, siamo tenuti in scacco da questi esseri talmente in basso nella graduatoria da non essere neppure dotati di vita autonoma.
Se chiediamo a un informatico come difenderci dai virus che attaccano i computer ci risponderà senz’altro di istallare un buon antivirus e di tenerlo aggiornato. Se insistiamo e gli chiediamo se ci sono altri modi per evitare il contagio ci guarderà scuotendo la testa con la commiserazione che gli esperti tecnologici riservano a noi imbranati digitali.
Il nostro personale antivirus si chiama “sistema immunitario” ed è un qualcosa di davvero complicato e meraviglioso, che funziona su più livelli di crescente complessità.
L’unica vera difesa che abbiamo contro qualsiasi virus è proprio il nostro sistema immunitario. Anche i vaccini, al centro di polemiche di lungo corso, non sono altro che un modo di informare il sistema immunitario sulle caratteristiche del parassita per dargli tempo di reagire con efficacia. Quando ci vacciniamo, scarichiamo in pratica l’aggiornamento del nostro personale antivirus, esattamente come facciamo con i prodotti di Bill Gates o Steve Jobs. I problemi che ci tocca affrontare con questo nuovo parassita stanno proprio nel fatto che è “nuovo”, e quindi il nostro antivirus non è ancora aggiornato e magari si fa fregare dall’ospite sconosciuto.
Tutto questo lungo preambolo per arrivare a una riflessione che vorrei condividere, senza intenti polemici, che sarebbero fuori luogo, ma perché credo sia indispensabile, nei momenti di crisi, il contributo di tutti per arrivare a soluzioni condivise e non imposte.
Tutti noi siamo stati spiazzati non solo dall’evolversi dell’epidemia, ma dal crescendo di provvedimenti che mirano tutti a minimizzare i rischi di contagio, spesso vietando cose che fino a poco fa ci sembrava inimmaginabile non poter fare e imponendo pesi difficili da sopportare a lungo. Ma nessuno pensa all’altro lato della medaglia, cioè alla salute del nostro sistema immunitario, che, alla fine, è la questione fondamentale, anche perché questo stato di emergenza non potrà durare all’infinito. Il virus è spesso paziente, non ha fretta di andarsene e anche in questo caso può tornare senza preavvisi. L’epidemia di spagnola di inizio Novecento è durata tre anni, con flussi e riflussi.
Il sistema immunitario è un po’ il cane da guardia che tutela la nostra salute e di questi tempi ci conviene davvero fare di tutto per tenerlo in buona forma. Il che significa dargli da mangiare bene (cioè curare la qualità dell’alimentazione), farlo riposare, ma soprattutto farlo vivere felice (libero, all’aria aperta, senza paure).
Proprio quello che è vietato dal crescendo di provvedimenti restrittivi che ci imprigiona in casa e finisce per aumentare il già elevato tasso di stress, angoscia e paura. L’esempio dell’herpes, la febbre sul labbro, che salta fuori nei momenti di stress fisico o mentale, ci aiuta a capire quanto sia negativo questo fattore per il buon funzionamento del nostro antivirus personale.
Anche per questo credo che siano da ripensare molte delle recenti norme, soprattutto se con questo intruso dovremmo convivere a lungo, selezionando quelle indispensabili o almeno utili e scartando quelle che, secondo me, fanno più danni che vantaggi, come il divieto di passeggiare nella natura o di fare sport individuali.
Chi è abituato a pedalare, sa per esperienza che non si può affrontare allo stesso ritmo una breve rampa o il colle dell’Agnello. Sul mezzo chilometro scarso di salita che porta a casa mia posso anche fare uno sforzo breve e violento, mentre sugli interminabili tornanti di un passo alpino devo amministrare con saggezza le risorse fisiche e mentali, se voglio sperare di arrivare in cima. Nessuno (compreso gli esperti che proliferano sui social) sa come si evolverà la situazione e neppure se la ricetta scelta si rivelerà efficace
Molti paesi stanno attuando strategie diverse da quella “cinese” adottata dal nostro governo. L’America ha addirittura aperto gratuitamente i grandi parchi naturali, di solito accessibili solo a pagamento, per spingere la gente ad andarsene dalle città affollate e starsene all’aria aperta, fare camminate immersi nel verde. Con l’unico logico limite di tenere la distanza di un metro fra le persone e di evitare assembramenti. Anche l’Inghilterra ha deciso di aprire le porte di tutti gli spazi verdi curati dal National Trust, con le stesse finalità.
Solo il tempo ci dirà chi avrà avuto ragione, se i nostri governanti che a ogni livello, nazionale e locale, spingono per tenerci tutti reclusi negli stretti spazi domestici o i molti paesi fautori di una maggior libertà di movimento e di responsabilizzazione personale nel controllo dei comportamenti.
Nell’attesa, mi rallegro con tutto il cuore per aver scelto, da tempi ormai remoti, di andare a vivere in campagna e aver sempre pensato che di una casa conti molto più il fuori (nel senso dell’orto, frutteto, bosco e annessi) che il dentro.
Mi rallegro anche di aver tenuto le patate piccole dell’anno scorso, in modo da poterle seminare, alla faccia di tutti i virus vecchi e nuovi.
E pazienza se per quest’anno “faranno poco”.
Pubblicato su La Guida del 26-3-020