L’economia delle multe

Cinquemila euro di multa a un piccolo negoziante perché ha usato il sacchetto sbagliato per avvolgere il prodotto consegnato al cliente. Multe per migliaia di euro ad agricoltori rei di aver sparso letame sui campi innevati o in tempi non consentiti. E si potrebbe continuare a lungo: l’elenco delle sanzioni, spesso pubblicizzate con enfasi sui media dagli stessi sanzionatori, si allunga ogni giorno.
Non riesco proprio a leggere notizie come questa senza un senso di frustrazione, preoccupazione, sgomento e rabbia. Sarà che mi faccio fregare dal mio vecchio vizio di immedesimarmi nei panni altrui, ma proprio non ce la faccio a essere indifferente a queste ulteriori mazzate che colpiscono, sovente, quei pochi che si ostinano a voler vivere del proprio lavoro. Non riesco a sorvolare sulla notizia, nascondendomi dietro il triste a chi tocca, come se avere guai con fisco, giustizia e con i molteplici e inflessibili tutori di un ordine sempre più complicato e variegato fosse cosa normale, uno dei rischi inevitabili di ogni attività economica e umana, come la grandine o la siccità e non dipendesse invece da un sistema normativo abnorme, asfissiante, tentacolare e da multe spropositate applicate con un rigore che sarebbe meglio riservare ad altri tipi di trasgressioni.
Non si tratta solo di solidarietà fra reali e potenziali oppressi da un sistema di sanzioni che mi sembra poco sensato e che, nei suoi molteplici e variegati aspetti può colpire chiunque. Le multe stratosferiche sono solo la punta dell’iceberg di una tendenza che sta facendo danni enormi all’economia e alla società, disincentiva impegno, iniziativa personale e investimenti, rende sempre più profondo il fossato fra cittadini e istituzioni e aumenta i già elevati livelli di stress, ansia e risentimento. Una miscela che in tempi di crisi mi sembra addirittura suicida.
Il risultato di questo connubio di fisco vorace, normative asfissianti, controlli punitivi e sanzioni spropositate è infatti sotto gli occhi di tutti.
Basta fare un giro in uno qualsiasi dei nostri paesi per vedere centri storici con negozi chiusi, serrande abbassate, cartelli affittasi o vendesi che spuntano da ogni vetrina, dove prima c’era merce esposta o locandine pubblicitarie. Stessa sorte era già toccata ai piccoli artigiani, che un tempo non lontano rendevano vivi e vitali i paesi con le loro botteghe: il ciclista, i meccanico, il fabbro, il falegname. Deportati nelle zone artigianali di periferia in tristi capannoni prefabbricati, costretti a ingrandirsi, indebitarsi e adeguarsi continuamente rincorrendo normative astruse pensate per le grandi realtà industriali o a chiudere i battenti. Non parliamo poi delle nostre montagne, con le borgate ridotte a ciapere, anche grazie a normative che ne rendono di fatto impossibile o antieconomico il recupero, e campi, prati e pascoli coperti di cespugli e soffocati da un triste bosco di invasione. Lassù, la fine è arrivata già molto prima, con l’emorragia di gioventù attirata dalle sirene della fabbrica e il colpo di grazia della progressiva riduzione di servizi essenziali.
L’Italia si è risollevata dalla gravissima crisi del dopoguerra grazie alle piccole imprese, alle mille iniziative personali e famigliari, alla tenacia di voler ricostruire e ripartire, sognando un futuro migliore per tutti. La ricetta per risolvere ogni crisi è ancor sempre la stessa e non può che partire dal basso, dall’impegno di ognuno, dalle tante piccole realtà diffuse. Pensare di risolvere i nostri problemi con qualche “grande opera” è pura illusione. Le grandi opere nascondono sempre grandi interessi e spesso grandi intrallazzi e rappresentano comunque grandi costi. Possiamo discutere sul fatto che siano più o meno utili, ma di certo non sono la soluzione al problema, la bacchetta magica che ci restituirà prosperità e benessere. E, altrettanto certamente, non si risolverà l’attuale crisi regalando soldi a chi non fa nulla o continuando a far leva sulle paure e sulla frustrazione diffusa. Due espedienti che possono servire ad accaparrassi voti e facile consenso sul breve periodo, ma che contribuiscono ad aggravare le malattie del sistema e possono portarlo a un esito fatale.
In natura, nessun parassita è tanto scemo da uccidere l’organismo che lo ospita, perché condannerebbe a morte anche se stesso. Purtroppo, invece, in economia esiste la concreta possibilità di andare in rovina e collassare in tempi brevi, come dimostra, proprio in questi mesi, l’esempio del Venezuela.
Reprimere e deprimere chi, con fatica e impegno cerca di darsi comunque da fare non è certo la cura giusta in tempi di crisi diffusa e rischia di appesantire la situazione. Perché ogni crisi è innanzitutto una crisi di fiducia e regole chiare, giuste e condivise, certezza del diritto, buon senso e comprensione sono ingredienti essenziali per potersi fidare.
Ma la questione delle multe spropositate va molto oltre quelle che sono le ricadute economiche ed è solo uno dei tanti aspetti di una grave frattura fra stato e cittadini che ha una grande varietà di sfumature e di espressioni e forti ripercussioni sul vivere civile.
Lo Stato italiano ha urgente necessità di ritrovare un corretto rapporto con i suoi cittadini, con tutti noi e, d’altra parte, noi tutti abbiamo urgente necessità di poter aver di nuovo fiducia nello Stato, nelle istituzioni e nei suoi rappresentanti. Dobbiamo poter tornare ad essere orgogliosi di questa nostra Repubblica nata dalla Resistenza (di questi tempi, forse, si tratta di resistere al fascismo della burocrazia e alla dittatura dei grandi interessi economici) e dobbiamo poterci “fidare” dei tutori dell’ordine.
Quando un onesto lavoratore è costretto ad aver paura delle divise di vario colore significa che si è passato il delicato confine fra democrazia e incipiente dittatura e che è necessario un urgente ripensamento dei nostri reciproci rapporti.
Gli stessi tutori dell’ordine dovrebbero capire che il loro compito è innanzitutto educativo, molto prima che repressivo e ognuno di loro dovrebbe avere ben chiaro, per provata esperienza personale, quanto sia difficile e faticoso, per chi lavora, guadagnarsi la giornata e arrivare a fine mese. Le eventuali multe dovrebbero colpire il dolo, la recidiva, la volontà espressa di trasgredire norme chiare e conosciute e provocare in chi le fa, suo malgrado, il dolore e l’empatia che accompagna sempre, nelle persone sensibili e corrette, qualsiasi “male” che si debba fare al prossimo, anche a fin di bene.
Al termine di questa prima chiacchierata su un argomento complesso e delicato che richiederà altri approfondimenti ci tengo a condividere con i rappresentanti della legge una convinzione che mi arriva da quarant’anni di passata esperienza scolastica. Non vorrei, infatti, che leggendo queste mie rimostranze, qualcuno potesse averne frainteso lo spirito. Tanto più che qualcosa ci accomuna, oltre al fatto di ricevere a fine mese lo stipendio dallo stesso datore di lavoro.
Anche in classe, in fondo, è necessario tutelare l’ordine, essere rigorosi su certi principi basilari di rispetto e convivenza, evitare episodi di sopraffazione o bullismo e cercare di ottenere buoni risultati dagli allievi. E, a volte, è purtroppo necessario reprimere, sanzionare o addirittura bocciare.
Ma per raggiungere questi obiettivi e ottenere rispetto (quello vero, non l’ipocrita considerazione dettata da paura o convenienza) è di gran lunga più efficace essere amati che temuti.

Pubblicato su La Guida del 28 marzo 2019