A sinistra della TAV

A distanza di oltre vent’anni dai suoi primi capitoli, la storia si è talmente ingarbugliata da diventare quasi un simbolo di questa nostra epoca, emblema e raffigurazione di una società confusa, di valori contraffatti o ribaltati e della infinita capacità di manipolazione di chi muove i fili dell’economia e della politica.
E anche, purtroppo, del declino e del tradimento di quella che ci ostiniamo a chiamare “sinistra”.
Vale la pena provare a raccontarla, la lunga storia della TAV, riassumendo le puntate precedenti per sommi capi. Va da sé che questa è solo una chiacchierata senza pretese e che per farsi un’idea meno superficiale dell’argomento sia necessario appoggiarsi a dati, tabelle, grafici, valutazioni, prospetti, disponibili in quantità su pubblicazioni varie e in rete.
Cominciamo, come sempre, dalla fine, cioè dalla recente manifestazione di Torino dell’otto dicembre. Un successo di partecipazione e una festa popolare, che è servita anche a smontare e ridimensionare l’eco esagerato e artificiale del precedente evento, di segno contrario: la marcia dei sostenitori del progetto. Una gigantesca montatura mediatica studiata e realizzata per far pendere la bilancia del consenso a favore dell’opera, in un momento in cui, per le stranezze della nostra strampalata situazione politica, rischiava di essere messa in discussione.
È più facile, infatti, credere a Biancaneve e ai suoi sette simpatici nani che alla favola delle sette madamìn, che senza supporti organizzativi riescono a radunare decine di migliaia di persone per una manifestazione “spontanea” invocando, come se ne andasse della loro personale sopravvivenza di torinesi benestanti, la continuazione dei lavori.
Chi ha provato anche solo a organizzare un qualsiasi evento di paese o di borgata – la cena della pro-loco, una lotteria di beneficenza, una gara fra amici – sa quanto sia “impossibile”, fra circolare Gabrielli, leggi, disposizioni varie che si sovrappongono e si contraddicono, promuovere manifestazioni di qualsiasi genere e quanto sia complicato farle conoscere, pubblicizzarle, coinvolgere e smuovere la gente.
Eppure, le sette magiche sorelle ci sono riuscite, senza sforzo apparente, in modo del tutto “spontaneo”.
Roba da far invidia a Harry Potter, altro che “madamìn” (l’uso del piemontese, anzi, del torinese, non è affatto casuale – ma ben poco in tutta questa storia è affidato al caso, ed è meglio evitare ulteriori divagazioni-).
Madamìn che peraltro si sono affrettate ad approfittare della provvisoria notorietà per farsi largo in trasmissioni televisive e spazi mediatici, dove hanno subito confessato con tranquillo candore di essere assolutamente non “competenti per entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera” e hanno pregato gli oppositori di farsi gentilmente da parte, ritirandosi in qualche angolo sperduto di montagna a vivere la quotidianità della loro “decrescita felice” in compagnia di “una mucca e una pecora”, in modo da “lasciare vivere noi” (sottointeso: gente concreta, seria, per bene e con i piedi per terra: veri piemuntéis).
Non commento l’ammissione orgogliosa di totale incompetenza (ormai incompetenza e ignoranza, unite a buone dosi di supponenza e arroganza sembrano esser diventate prerequisiti indispensabili per farsi largo in politica) Il pressante consiglio di dedicarsi a vita bucolica potrebbe invece farmi sorridere, visto che in gioventù, con un anticipo di oltre trent’anni sul simpatico suggerimento, ho fatto esattamente quello che proponeva la gentile signora – capre, pecore e mucche comprese -, se non fosse prevalente la sensazione di tristezza per il tono e il livello di queste dichiarazioni.
Tristezza che è anche la sensazione che mi assale ogni volta che un esponente della “sinistra” (Chiamparino, Fassino o chi per essi) apre bocca per ricordare quanto sia necessaria l’opera per l’economia regionale e nazionale. Sinistra in genere afona, o del tutto muta per qualsiasi grande questione sociale o economica, salvo i consueti starnazzamenti fra i troppi galli che si sono ritrovati a condividere le poche briciole di un passato potere, e che si risveglia all’improvviso per solenni dichiarazioni di appoggio senza se e senza ma alla TAV. Come se per acchiappare finalmente il sol dell’avvenire fosse necessario un treno veloce e ci fosse speranza di intravedere la rossa primavera solo alla fine di un lungo tunnel ferroviario… Come siamo caduti in basso!
La stessa tristezza mi assale anche, di questi tempi, ogni volta che mi capita di aprire un giornale. Andate a sfogliare La Stampa o Repubblica (entrambe del gruppo Gedi, galassia Exor, ex Fiat, Agnelli etc.) Potete scegliere una data a caso di questi ultimi mesi (il che dimostra che la cosa non è affatto casuale): ci trovate sempre uno o più articoli, in bella mostra, che ribadiscono il ritornello di quanto sia necessaria la TAV, di quanto ci tenga la gente, la buona e operosa gente del Piemonte, operai, piccoli imprenditori, padri di famiglia, madamìn…
Uno stillicidio continuo, l’ossessiva ripetizione di concetti banali che diventano “veri” in quanto riproposti con sempre nuove sfumature. Evitando accuratamente, però, di scendere nei dati di traffico, nei costi e nei dettagli tecnici, o di citare pareri sfavorevoli di gente davvero “competente”, ingegneri, esperti di logistica, professori universitari.
L’esatto contrario di quanto fatto, con encomiabile puntiglio, chiarezza e onestà, da parte del Controsservatorio Val Susa.
L’atteggiamento di parte di buona parte della stampa nazionale mi addolora particolarmente, anche perché questi sono tempi in cui giornali, giornalisti ed editoria in generale sono sotto il fuoco incrociato di forze politiche che vogliono zittire ogni voce contraria e annullare ogni forma di dissenso: la fase preliminare di ogni dittatura.
Resto convinto che la democrazia si difenda (anche) scrivendo e leggendo. I giornali, come ha detto qualcuno, sono i cani da guardia del sistema democratico, ma a volte possono anche farsi lupi e prestarsi a interessi di parte. L’informazione (che i neoarrivati al potere vorrebbero semplicemente eliminare trasformandola in “comunicazione”) è preziosa e dobbiamo opporci con forza a ogni tentativo di soffocare le voci che dissentono, ma occorre anche vigilare perché non se ne faccia un uso distorto al servizio di privatissimi interessi e per manipolare l’opinione pubblica.
Ma dopo questa lunga divagazione è meglio ritornare alla storia del nostro treno veloce…
La TAV (che poi vorrebbe pure l’articolo maschile, visto che si parla, appunto, di treni) nasce con un doppio peccato originale: la mancanza di una vera analisi costi-benefici basata su dati realistici e su onestà intellettuale e l’imposizione dell’opera senza vero dialogo alla popolazione di un territorio già massacrato dalle infrastrutture: una ferrovia, due statali, un’autostrada e un traforo a mangiarsi la poca terra del fondovalle e a regalare traffico, inquinamento e mafia. Una “violenza” che si è aggiunta a quelle del passato, la classica goccia che farebbe traboccare ogni vaso, ed è arrivata fino alla militarizzazione di vaste zone della valle.
Fin dall’inizio non si è mai discusso veramente SE fare la TAV, ma solo COME farla. Un’infrastruttura decisa a priori e da fare a ogni costo perché non interessava l’utilità dell’opera, ma il solo fatto di costruirla, spartendosi l’enorme quantità di denaro necessario per progettazione ed esecuzione dei lavori.
La stessa logica che ha disseminato di capannoni vuoti e di autostrade inutili la nostra (un tempo) bella Italia e ha contribuito a creare lo spaventoso debito pubblico che abbiamo accumulato negli anni e a renderci più poveri, in tutti i sensi negativi del termine. Perfino il Commissario di Governo nel novembre 2017 ha dovuto ammettere che i dati di traffico su cui si erano basate le valutazioni erano palesemente sovrastimati (la quantità di merci trasportate è calata regolarmente dal 1997 al 2017, mentre le previsioni si basavano su una strabiliante e inverosimile impennata). L’opera, quindi, è stata decisa ipotizzando ricavi non realistici che avrebbero giustificato i costi (che sono sempre, regolarmente sottostimati).
A questo si aggiunge il particolare non secondario che una linea ferroviaria esiste già ed è pure ampiamente sottoutilizzata e che le spese previste per quest’opera di dubbia utilità sono folli. Un centimetro di TAV costa quasi 1600 euro, 500 metri pesano come un ospedale da oltre mille posti letto. Nell’attuale situazione di crisi decidere di buttare almeno 10 miliardi per raddoppiare una linea esistente e sottoutilizzata significa rinunciare a ospedali, sanità, scuole, pensionamenti, cura del territorio, manutenzione delle opere esistenti, investimenti per il trasporto pubblico e le fonti rinnovabili. Una scelta, a mio giudizio, insensata.
Un po’ come se una persona con un reddito annuo modesto, insufficiente per sbarcare il lunario e pagare gli interessi dei folli debiti accumulati nel corso di decenni di bella vita, decidesse di spendere milioni di euro per costruirsi un enorme palazzo, pur essendo già proprietario di una casa più che sufficiente per le proprie esigenze.
Un copione scontato e già visto innumerevoli volte, in cui da una parte ci sono gli interessi di grandi e piccoli gruppi imprenditoriali sostenuti da forze politiche e dall’apparato mediatico di giornali e televisioni compiacenti e dall’altra l’ostinazione tenace e non violenta di valligiani e simpatizzanti.
A complicare le cose, visto che nella premessa si parlava di una storia diventata con gli anni talmente complessa da sfiorare il surreale, il ribaltamento di ruoli e prospettive causato dal “tradimento” di quella che definivamo sinistra e dall’emergere di forze politiche nuove, pronte ad accaparrarsi spazi, consensi e ruoli.
La sinistra da Dalema a Renzi, passando per le varie comparse intermedie, si è caratterizzata per una politica economica sfacciatamente neoliberista, e quindi di destra.
Un tradimento che si è rivelato pure perdente, come capita sempre quando si svende la propria identità, e ha contribuito a un crollo epocale dei consensi accentuato da egocentrismo, autoreferenzialità, infantilismo, litigiosità di protagonisti e comprimari. Senza contare che abiti di lusso, scarpe d’autore, barche d’altura, vigneti pregiati, aerei di stato da esibire con soddisfatta alterigia non sono esattamente l’immagine vincente per l’elettorato di riferimento, stretto fra crisi economica, preoccupazioni per il futuro e problemi di sopravvivenza.
Come ci insegna la fisica, la biologia e il buon Darwin, in natura vige la legge dell’horror vacui e gli spazi vuoti vengono immediatamente occupati da competitori. Lo spostamento a destra della “sinistra” ha creato un’enorme distesa vuota e ha messo le premesse per il successo (vistoso, ma secondo me, temporaneo) del “Movimento” Cinque Stelle (le virgolette sono intenzionali, si addicono a un movimento mosso e controllato da qualcuno, più un esperimento di ingegneria sociale e di manipolazione del consenso che un moto spontaneo del popolo; il termine Cinque Stelle, invece, mi ricorda quegli alberghi extra-lusso, lontani dalle mie vacanze da campeggiatore itinerante, e forse non è troppo stonato, vista la matrice elitaria del club).
Un comico in disarmo, un imprenditore visionario, una ditta privata che controlla una “piattaforma” che vuole sostituirsi alla dialettica parlamentare realizzando di fatto la dittatura della Rete si sono appropriati di istanze gettate via da una “sinistra” miope, incoerente e incapace e le hanno fatte proprie. Usandole in chiave elettorale, pronti magari all’ennesimo voltafaccia quando il vento della convenienza girerà dall’altra parte.
Staremo a vedere…
Per finire questa lunga e complicata storia con una nota positiva e un accenno di speranza possiamo ricordare la resistenza del popolo della valle Susa, tenace, motivata, pacata, non violenta, ricca di inventiva e di consapevolezza.
Col passo lento e costante del montanaro avranno ragione di ruspe, idranti, manganelli, reticolati, grilli parlanti e madamìn. In fondo, già Tito Livio scriveva che anche le legioni romane si erano trovate a mal partito con gli antenati dei fieri abitanti delle valli.
E le tante bandiere rosse che sventolavano al corteo dell’otto dicembre dovrebbero anche ricordare ai rottamatori della nostra amata sinistra che solo ritornando ad abbracciare e condividere con convinzione le istanze vere e le giuste cause del popolo si può evitare la trappola del populismo.
Tornando pure, magari, a raccattare un po’ di voti.

Pubblicato sul Granello di senape del dicembre 018 con altro titolo e in una versione leggermente diversa, scritta prima della manifestazione dell’8 dicembre