Tempo di castagne 3: la castagna e il castagno

La castagna non deve farci dimenticare il castagno.
Nel senso che il frutto e la sua importanza nell’alimentazione del passato e nell’economia del presente non devono far passare in secondo piano tutto il resto. Che è almeno altrettanto importante, anche se meno facilmente quantificabile. Non per niente si parla di “civiltà del castagno” e non “della castagna”. Adesso, invece, in omaggio a tempi in cui non pare esistere altro valore se non quello immediatamente traducibile in moneta e computabile in cifre e percentuali, rischiamo di ridurre tuto il complesso ecosistema del castagneto e della cultura che lo caratterizza ai dati di produzione, vendita, esportazione della castagna e del relativo indotto.
L’importanza di questa coltura non era solo alimentare: nelle basse valli tutta la parte in legno delle case era in castagno. Piccola e grande orditura, colmi, costane, dormienti, puntoni, capriate: tutta la struttura portante del tetto della casa alpina era quasi sempre ricavata da questa preziosa pianta. Ma anche molti accessori interni ed esterni: porte, balconi, scale, mangiatoie, madie, cassoni per i cereali, letti, armadi.
Il larice nelle alte valli e il castagno nella fascia più bassa. L’uso dell’essenza resinosa (il “merse”) o del castagno segna il vero, invisibile confine fra due mondi e due culture diverse: quello degli alpeggi, dei grandi spazi, delle borgate imponenti e accentrate in quota e quello dei piccoli nuclei abitativi con case più modeste e ambienti ristretti delle basse valli.
Il castagno è un legno forte, stabile, facilmente lavorabile, ricco di tannini che lo proteggono da muffe, funghi e insetti senza bisogno di essere impregnato con prodotti chimici (sovente dannosi per salute e ambiente), ed è davvero l’ideale per l’edilizia, per pali da recinzione e anche per la falegnameria. Si usavano soprattutto le piante selvatiche, i “servaiùn” nati spontaneamente nei boschi e cresciuti diritti per cercare la luce in mezzo agli altri alberi. Si scortecciavano col coltello a due manici o si squadravano grossolanamente con l’accetta. Le fibre della parte esterna del fusto, non toccate dai denti della sega, rendevano molto resistenti anche travi di piccola sezione. Un risparmio di materiale e di peso, in tempi in cui braccia e spalle dovevano fare tutto il lavoro che adesso deleghiamo a gru e paranchi. Oggi, al contrario, si usano spesso per i tetti enormi travi squadrate di essenze più tenere e a crescita veloce, come l’abete o i vari pini, che necessitano di trattamenti protettivi e spesso sono più imponenti che davvero solide e durature. Come per molte altre cose, si privilegia la forma rispetto alla sostanza, la facilità di montaggio rispetto alla durata, la regolarità rispetto alla resistenza.
Unico neo del legno di castagno è la scarsa propensione a bruciare. Gli stessi tannini che lo proteggono da tarli e funghi ne rendono anche più difficile la combustione col risultato di produrre più fumo, incrostazioni e corrosione. Ma basta lasciare i ciocchi spaccati alla pioggia per un paio di stagioni per dilavare i tannini e anche il castagno diventa un buon combustibile, ricco di potere calorico e durevole. Stiamo parlando, naturalmente, del legno di esemplari di alto fusto, innestati o meglio ancora selvatici, non delle piante coltivate su portainnesti clonali in moderni impianti intensivi.
Il castagno è e deve rimanere un albero da bosco, senza diventare l’ennesima specie prigioniera delle regole della moderna frutticoltura: forte densità colturale, piante basse e precoci nell’entrare in produzione, operazioni colturali meccanizzabili, difesa chimica dai vari parassiti. Passaggio già compiuto in un passato ormai lontano da tante specie arboree un tempo innestate su franco o selvatico e inserite in colture promiscue, assieme al prato o ai vari seminativi. Meli, peri, peschi, albicocchi, che una volta erano sparsi per prati e campi, sono ormai da decenni diventati a tutti gli effetti fruttiferi da impianto specializzato, alberi deboli e di dimensioni ridotte, col ciclo breve e la precocità di produzione che li rende adatti alla fretta dei nostri tempi. Incapaci di stare in piedi da soli, devono appoggiarsi a sostegni ed essere regolarmente riforniti di acqua da tubi. La loro sopravvivenza dipende da regolari trattamenti antiparassitari. Quasi un paradosso: le piante che dovrebbero regalarci la salute hanno bisogno di costanti cure, come malati parcheggiati in lunghe corsie.
Il nocciolo e il ciliegio hanno ormai da qualche anno imboccato la stessa strada e i prossimi candidati sono il noce e il castagno. Il noce nostrano è pianta con portamento regale e legno nobile per eccellenza e ci fornisce un frutto ricco di grassi salutari, fra cui i famosi omega 3 che molti si affannano a comprare a caro prezzo in pillole ed integratori alimentari. Ma è soprattutto il castagno che simboleggia il “bosco curato” ed è parte importante della nostra storia e della nostra cultura.
Bosco è spesso oggi sinonimo di terreno incolto, lasciato alla spontanea e incontrollata crescita di alberi, rovi e cespugli. Un bosco d’invasione, che si è ripreso i tanti terreni agricoli ora abbandonati, in omaggio a quella wilderness spacciata per ambientalismo e lontana, sin dal nome, dalla vera cultura alpina. Il castagno è invece il simbolo del bosco “coltivato”, in cui uomo e natura collaborano per ottenere il miglior risultato.
“Curato e coltivato” che non è sinonimo di artificiale: il castagneto non deve essere ridotto a un triste prato inglese in omaggio a un errato concetto di ordine e pulizia. Il bosco è per sua stessa definizione un organismo complesso, in cui convivono piante, animali, cespugli, funghi, fiori, erbe e in cui l’opera dell’uomo deve assecondare quella della natura in un equilibrio dinamico che si adatta a luoghi e situazioni.
I castagni erano talmente importanti in passato da occupare una vasta gamma di terreni, da quelli fertili e relativamente pianeggianti a quelli scoscesi e marginali. Per questo il Brandizzo nella sua Relazione di metà Settecento divide i castagneti in diverse categorie produttive. A bassa quota, spesso, vi erano “campi aggregati di castagne le quali ingrassate e coltivate fanno a maraviglia”, producendo oltre quattro volte tanto i boschi meno favoriti.
Le piante erano distanziate, in modo da poter sfruttare al massimo la luce e permettere una buona produzione di erba e fieno. Le foglie, a differenza della brutta abitudine attuale, non si bruciavano, ma erano raccolte e usate come lettiera per il bestiame. I tanti casotti nei boschi, alcuni ancora coperti a paglia, ci ricordano questa buona pratica colturale. Il letame ricavato ritornava al castagneto e garantiva buone produzioni nel tempo. Bruciare foglie umide produce fumi tossici e distrugge la preziosa sostanza organica, capace nel bosco di perpetuare la fertilità senza interventi esterni. Il fuoco ha senso solo in caso di gravi attacchi parassitari, per ridurre l’inoculo di spore e larve, altrimenti dovrebbe essere estraneo alla pratica di qualsiasi buon coltivatore.
Gli alberi, un tempo, erano selezionati, innestati, allevati, potati, curati.
Il castagneto ripagava queste attenzioni con una gamma di prodotti basilari per la sopravvivenza: erba, fieno, frutti di sottobosco, funghi, miele, foglie, legname di vario tipo e pezzatura e, finalmente, castagne.
A questi beni materiali, oggi potremmo aggiungere l’impagabile sensazione di benessere, pace e armonia che ci regala il lavorare, passeggiare o anche solo vedere un bosco ben curato ma ancora naturale.
Il simbolo stesso di come possa essere meravigliosa e proficua la spontanea collaborazione di uomo e natura.

Pubblicato su La Guida dell’8-11-018