Tempo di castagne 2 Bosco o frutteto?

Le castagne condividono con frutta e verdura una valutazione commerciale basata essenzialmente sulle dimensioni. Valgono, cioè, in base alla pezzatura, non tanto per le qualità organolettiche. In altre parole, la castagna è pagata di più se è grossa, anche se ha sapore mediocre e, come capita per certe varietà orientali, ricorda più la rapa che il frutto prelibato a cui siamo abituati nelle nostre zone. Già in fase di raccolta si fa, in genere, una prima cernita, lasciando sul posto gli esemplari troppo piccoli o quelli imperfetti. Inutile caricarsi di frutti che dovranno poi essere scartati o che sono pagati cifre non remunerative.
Un tempo non era così. Esterina Parola di Valloriate, mi raccontava in una chiacchierata di alcuni anni fa, che non solo si raccoglievano i frutti piccoli, ma anche quelli “rufignà”, cioè le castagne “rupie” alla base, che anche da secche non perdevano la pellicina interna. Ricordava che la madre, ogni sera metteva a cuocere una brounsà ’d mourelle, riempiva cioè un pentolone di queste castagne di scarto, che rimanevano tutta la notte sulla brace in via di spegnimento. Al mattino erano finalmente cotte ed erano una ghiottoneria per i bambini, una sorta di biscotto dei tempi andati. Neppure i brisaròt, le castagne rotte o ridotte in briciole si gettavano: col van si dividevano i pezzi più grandi, ancora idonei all’alimentazione umana, da quelli minuscoli che si davano cotti alle vacche.
Un’altra signora anziana di Valloriate raccontava che da bambina la sua famiglia, non possedendo altri locali, viveva nel secòu, il casotto in cui si mettevano le castagne a seccare al fumo prodotto da grandi suche di legno entancanì (parola intraducibile che indica un legno ormai poco idoneo alla combustione, che brucia lentamente producendo molto fumo e poco calore). Ricordava gli occhi che lacrimavano in continuazione e la minestra mangiata al buio sotto la chia, il graticcio su cui seccavano le castagne, condita con le larvette che piovevano dall’alto. Proprio il secòu può essere considerato il simbolo di questa civiltà di bassa valle. Grazie a questa antica tecnica, a mezza strada fra affumicazione ed essiccamento, la castagna si poteva conservare anche per mesi, come fosse un cereale.
I racconti degli anziani ci riportano in altri tempi, in cui ogni caloria era preziosa e riempirsi la pancia era un sogno e una festa. Tempi che non è certo il caso di rimpiangere, ma che è comunque bene non dimenticare, cercando di coglierne gli aspetti positivi.
La castagna è oggi diventata un cibo da mangiare in occasioni particolari, più una ghiottoneria da fiere ed eventi vari che un alimento quotidiano basilare ed indispensabile. Un cambio di prospettiva che si accompagna a un progressivo evolversi del modo di coltivazione, delle varietà usate, dei portainnesti, dell’habitat.
Cambiamenti che non sono solo tecnici e agronomici, ma comportano una diversa filosofia e un approccio mentale molto differente e avranno pesanti ricadute sull’ambiente e sul paesaggio delle basse valli. Un processo simile a quello avvenuto in tempi recenti per il nocciolo, che da coltura di terre marginali, di collina o alta langa, è scesa in pianura ad occupare seminativi irrigui e altri terreni fertili. Così il castagno, da albero di alto fusto e di grandi dimensioni coltivato nel bosco sta diventando un qualsiasi fruttifero allevato in impianti intensivi su terreno pianeggiante con portainnesti nanizzanti. Da signore dei boschi, fiero, libero e selvaggio, con esemplari centenari uno diverso dall’altro, si riduce a diventare un piccolo albero da frutta prigioniero del suo sesto d’impianto in file parallele, con grigi pali di cemento a sostenere tubi e reti.
Oltre al cambiamento di rango, quello che preoccupa è il diverso modo di coltivare e il differente approccio. Frutteto è oggigiorno sinonimo di trattamenti antiparassitari e certamente il castagno (come è stato puntualmente per il nocciolo) non sfuggirà alla regola. La struttura stessa del bosco impedisce in genere di intervenire con fungicidi o insetticidi e questo ci regala prodotti incontaminati (anche se non sempre perfetti). Obbliga ad intervenire con la più difficile, lenta, ma molto più saggia lotta biologica, senza rovinare l’equilibrio naturale come avviene inevitabilmente quando si usa la scorciatoia chimica. Con risultati che possono essere molto buoni e stabili, anche se non immediati, come è capitato col cinipide (peraltro arrivato probabilmente grazie alla balzana idea di introdurre portainnesti e varietà esotiche).
Sarebbe bene, quindi, riflettere con attenzione sulle scelte e sulle strategie da adottare. Se trasformiamo anche il castagno in un “qualsiasi” albero da frutta sarà difficile preservare un delicato equilibrio biologico e ne risentiranno anche i castagni dei boschi. Con gravi conseguenze anche sul paesaggio delle nostre basse valli.
Un primo, piccolo passo per cercare di fermare questa tendenza e allontanare la prospettiva triste della fine di una coltura secolare sarebbe nel cambiare la scala di valutazione dei frutti, mettendo in secondo piano le dimensioni e privilegiando le varietà tradizionali (non solo i classici marroni, i garùn rossi e neri, ma anche le tempourive, le sirie, le plouse, le rusette, i tanti “servai” spesso di ottimo gusto. Ma siccome il mercato reagisce alla inflessibile legge della domanda, occorre sensibilizzare le persone ed educare il consumatore in modo che privilegi il gusto alla vista, la sostanza alla forma, il locale all’esotico. E soprattutto, il bosco al frutteto.

Pubblicato su La Guida del 1 novembre 018