Spiccioli di economia 4: Idee contrapposte e personalità contrastanti

La storia del pensiero economico è un susseguirsi di idee contrapposte e di personalità contrastanti che si oppongono alle teorie precedenti. Così dopo Smith, il padre del liberismo, arriva Marx, il filosofo che ha strutturato il pensiero socialista e condizionato la storia dei secoli successivi con la rivoluzione sovietica e l’avventura del comunismo.
La cosa curiosa è che idee contrastanti nascono dalle stesse basi e che se non ci fosse stato uno Smith, probabilmente non sarebbe arrivato un Marx a smontare le idee del predecessore dando forma opposta agli stessi ingredienti. E se non ci fosse stato Marx probabilmente il papa Leone XIII non avrebbe scritto nel 1891 l’enciclica Rerum novarum, in cui la Chiesa prendeva per la prima volta posizione sulle grandi tematiche sociali, inaugurando una via alternativa a comunismo e capitalismo.
La lontananza temporale ci permette di guardare alle opposte teorie con il distacco e la serenità che rende possibile apprezzarne i contenuti validi e superarne i limiti che hanno dimostrato.
I liberisti ritenevano che il mercato fosse in grado di autoregolarsi, raggiungendo il miglior equilibrio possibile. Marx contesta questa ipotetica capacità del mercato di aggiustare da solo incongruenze e ingiustizie e ritiene, all’opposto, che senza un intervento deciso si aggravi sempre più lo squilibrio fra i ricchi (che lui chiama capitalisti) e i poveri (proletari). Al contrario di Smith, ritiene che l’unica possibilità di capire l’economia passi attraverso lo studio della storia: i vari comportamenti dell’uomo sono troppo difficili da prevedere e impossibili da determinare con leggi studiate a tavolino. Nella sua visione, la storia dell’umanità è sempre stata caratterizzata dalla contrapposizione di due classi: una privilegiata, l’altra sfruttata: padroni e schiavi, feudatari e servi della gleba, capitalisti e proletari. Il progresso tecnologico e la rivoluzione industriale, invece di sollevare la sorte dei più poveri, non facevano che accentuare le distanze fra i pochi fortunati e i molti sfruttati. Se il capitale era per tutti una zappa, chiunque poteva cercare di procurarsela; con la meccanizzazione, al contrario, il possesso degli strumenti di produzione era appannaggio dei pochi che potevano permettersi macchinari costosi incassando così il “plus valore” generato dal lavoro comune.
Unica alternativa alla crescente disparità fra le due classi, secondo Marx, è una rivoluzione che consenta ai poveri di appropriarsi dei mezzi di produzione. Dopo la parentesi violenta, ci sarebbe stata una società giusta, in cui ognuno avrebbe ricevuto secondo i suoi bisogni e dato secondo le sue possibilità. Insomma, una specie di regno dei cieli, un paradiso laico e senza Dio.
La storia (proprio quella da cui era partita l’analisi del filosofo di Treviri) si è incaricata di dimostrare che dalla violenza non nascono mondi idilliaci, ma solo altra violenza e il bel sogno di giustizia e uguaglianza si è trasformato nell’incubo di uno stato totalitario, nella triste burocrazia dei piani quinquennali e nell’inferno dei gulag.
Con un salto di quasi un secolo concludo questa brevissima panoramica del pensiero economico con un terzo grande personaggio: John Maynard Keynes. Le sue teorie sono particolarmente attuali, perché nascono negli anni della grande depressione seguita alla prima crisi finanziaria globale, il crollo di Wall Street del 1929.
Keynes riprende in mano gli stessi elementi già usati dai suoi predecessori, ma li combina in un modo nuovo e originale. Liberisti e marxisti avevano studiato a fondo la produzione e i suoi fattori, la natura, il capitale e il lavoro. Lo studioso inglese, invece, mette al centro del suo interesse la domanda, considerandola il vero motore dell’economia. Le crisi nascono proprio dalla mancanza di domanda e si risolvono cercando di far ripartire il motore che si è inceppato. È inutile affannarsi a produrre se nessuno compra, prima di ogni altra cosa bisogna attivare la domanda.
Secondo lui, ogni sistema economico è caratterizzato dalla ciclicità, cioè da un susseguirsi di momenti favorevoli (crescita o boom) e da altri di stagnazione e recessione. Visto che nei momenti di crisi i privati non hanno i mezzi per reagire, è lo stato che deve attuare una politica anticiclica. Quando le vacche sono grasse deve aumentare le tasse per poterle abbassare durante gli inevitabili periodi negativi.
Compito dello stato è quindi intervenire e investire durante i momenti difficili, restituendo ai cittadino quanto preso durante gli anni favorevoli. Ogni moneta spesa dallo stato in investimenti produttivi avrà una ricaduta positiva che ne moltiplica l’effetto. Il dollaro pagato all’operaio che costruisce le ferrovia non gli resterà in tasca, ma andrà al contadino che gli vende la verdura e poi al meccanico che aggiusta il trattore al contadino, moltiplicando le ricadute positive con vantaggio di tutti, compreso lo stato da cui era partito.
Una ricetta semplice e geniale, che se ben applicata può davvero risolvere anche le crisi più gravi, come ha saputo fare con quella del 29 negli Stati Uniti.
Come capita sovente, l’inglese Keynes non è stato profeta in patria. Il governo britannico di allora ha affrontato la crisi con la solita tecnica del far “tirare la cinghia” ai cittadini, mentre il presidente americano Roosevelt ha osato fidarsi delle idee visionarie dell’economista di oltre oceano, dando vita al new deal e inaugurando una politica di attenzione sociale e di grandi investimenti pubblici. In pochi anni l’America si è risollevata dalla più grave crisi della sua storia e si è avviata a diventare la superpotenza mondiale che oggi conosciamo. L’Inghilterra ha iniziato quella parabola discendente che pare continuare ai giorni nostri con il triste epilogo della Brexit.

Pubblicato su La Guida del 28-12-017 con altro titolo