Relazione del Brandizzo 2,3,4 Cuneo

Brandizzo 2 Cuneo (prima parte)

Alla metà del Settecento, Cuneo aveva 12500 abitanti, meno di un quarto rispetto ai 56.116 residenti del 2015. Le famiglie, chiamate allora “fuochi”, erano 2822.
Il territorio del comune si estendeva per 31.583 giornate piemontesi. Ad eccezione delle 300 giornate occupate da edifici (metà nel concentrico e metà nelle frazioni e in campagna), di un migliaio di giornate “di nisun reddito” perché coperte da cumuli di pietre (le ciapere che dividevano gli appezzamenti) e di circa 700 giornate di “ripe, boschine e coste verso Gesso e Stura”, tutto “il rimanente è coltivato”.
È la fotografia di un territorio usato con intensità e presidiato con cura e di un’economia che ruotava intorno al settore primario Sarebbe interessante, ma anche forse deprimente, fare il confronto con la situazione attuale: quanta buona terra agricola abbiamo coperto con case, capannoni, infrastrutture, quanta bellezza e armonia abbiamo cancellato per sempre? Quante delle circa 30 mila giornate di suolo produttivo sono sopravvissute all’ingordigia e all’imprevidenza di questi ultimi decenni?
Passate guerre e invasioni, la seconda metà del Settecento è stato un periodo di crescita demografica che spingeva a rendere più intensiva la coltivazione e a sfruttare ogni più piccolo angolo di terreno. Lo testimonia la “scomparsa” di 712 giornate di “pascoli, pasture e gerbidi” descritte nei Catasti di fine Seicento e di cui l’Intendente non trova più traccia: “niuno sa additarmeli e io credo che siano coltivati”.
Col crescere della popolazione erano spariti gli ultimi scampoli di terre comuni che avevano resistito alle grandi privatizzazioni conseguenti allo scavo dei canali irrigui dei secoli precedenti. Tutto il territorio era sfruttato in modo intensivo, perfino “le ripe delle bialere” erano coltivate “fino al bordo dell’acqua”.
La necessità di produrre alimenti per una popolazione crescente aveva anche fatto sparire le oltre 400 giornate di “bosco in pianta” descritte nel Catasto del 1698. Alla metà del Settecento sopravvivevano solo alcuni “piccoli tenimenti” arborei alle Basse di Stura.
In compenso erano molto più diffusi di adesso i castagni, con una produzione annua di oltre 5000 emine, e i “mori celsi” (gelsi) indispensabili per alimentare la fiorente industria della seta. Nel 1750 la produzione di “cocchetti” aveva raggiunto i 4000 rubbi, quasi 37 quintali di preziosi bozzoli da filare. Molto diffuse anche le piante di noce, materia prima per la produzione di olio, e gli alberi da frutta in generale.
Ai tempi, non esisteva il concetto attuale di “frutteto” specializzato, e i fruttiferi (castagni compresi) erano disseminati in prati e campi, complemento indispensabile della produzione delle colture erbacee. Un sistema che sarebbe incompatibile con l’attuale meccanizzazione, ma che offriva i vantaggi di una minore sensibilità ai parassiti e rendeva ancor più armonioso il paesaggio. La bellezza di un ambiente, infatti, è figlia della varietà, che “copia” la grande gamma di sfumature della natura.
Parte integrante del paesaggio e della vita quotidiana erano anche gli animali. Le vacche erano 5500, un numero molto elevato, che spingeva a sfruttare ogni filo d’erba. In città doveva essere molto alto anche il numero di cavalli e muli, sia per le necessità di un fiorente commercio, sia per le esigenze di militari e notabili, tanto da spingere alle stelle il prezzo del fieno “massime appresso san Martino di novembre”.
Una coltivazione allora molto diffusa e oggi quasi scomparsa era la vite. Le giornate di alteni erano ben 1650 (una superficie pari a oltre cinque volte quella di tutti gli edifici del comune, comprensivi di cortili e piazze). La parola alteno, in piemontese “utìn”, indica in genere la vite allevata alta (dal tardo latino “altinus”), appoggiata a sostegni o piante. Negli interfilari si coltivavano ortaggi o cereali. Spesso si trattava di piccoli appezzamenti cintati o delimitati da muretti, indispensabili per garantire l’autosufficienza alimentare delle famiglie. Erano quindi i terreni più preziosi, con i più alti redditi catastali e sono lo specchio di un territorio e di un tempo in cui ogni famiglia cercava di prodursi il cibo quotidiano. Se ipotizziamo infatti una superficie media di mezza giornata per “utìn” tutte le 2822 famiglie di Cuneo potevano contare sul proprio appezzamento. L’economia di autosufficienza non era quindi una prerogativa della montagna, ma era condizione comune e diffusa anche in situazioni urbane. Città e campagna non erano due sfere distinte separate da un’anonima periferia diffusa, come succede oggi, ma due realtà che si compenetravano ed erano strettamente legate fra loro.
La produzione annua di uva, e di conseguenza di vino “made in Cuneo”, era notevole: 21450 brente, pari a oltre un milione di litri, quasi 85 litri per ogni abitante, bambini e lattanti compresi.
Nonostante la forte produzione cittadina, il vino non bastava, anche per la presenza di ben 120 osterie che contribuivano a tener alto il consumo. Dai dati della gabella si desume che entrassero in città almeno “mille carra di vino”, cioè altre 10 mila brente, poco meno di mezzo milione di litri. La gabella del vino rendeva alle casse cittadine ben 5000 lire, più dell’intero bilancio di molti piccoli comuni dei dintorni e il doppio del totale degli stipendi pagati ad amministratori e impiegati “cioè al sindaco, segretario, procuratore in Torino, tesorieri, archivista, messi, portinai, forieri, trombetta”.
Già allora, il prodotto migliore arrivava “dalle Langhe o dall’Astigiana” da cui venivano “in folla i padroni di quelle vigne a condurvi i loro vini”.
I numeri, abbastanza impressionanti, del consumo di vino non devono far pensare tanto a una società di ubriaconi (il grado alcolico del prodotto locale non poteva essere certo elevato), ma piuttosto a una alimentazione basata su pane e vino, integrata da latticini, frutta e verdura. Il vinello locale era a pieno titolo un alimento che contribuiva alla magra razione calorica quotidiana basata sui cereali.
Le quantità elevate sono anche indice del fiorente commercio e del “passaggio” che rendeva Cuneo una città ricca e vivace. Lo scrive lo stesso Intendente che parla del “vivo commercio che in essa fiorisce” e prevede che nel prossimo futuro ci sarebbe stata “penuria di magazzini e abitazioni”.
Straordinariamente attuale e intelligente la ricetta che propone il Brandizzo per rimediare alla carenza di fabbricati: non espandere l’area abitata, ma intervenire all’interno del recinto delle mura, migliorando il patrimonio edilizio esistente.
L’esatto contrario di quanto si è fatto negli ultimi decenni (e purtroppo, in parte si sta ancora facendo, almeno a giudicare dai nuovi lotti di capannoni, asfalto e cemento previsti in zona Piccapietra).

 

Brandizzo 3 Cuneo (seconda parte)

La ricchezza di Cuneo nel Settecento era data, oltre che dal vivace commercio, anche e soprattutto dalla sua vocazione agricola. “Il territorio di questa città si distende in una pianura fertilissima, bagnato in ogni sua più piccola parte dalle acque di tre fiumi, Stura, Gesso e Grana”, scriveva l’Intendente nella sua Relazione.
L’intensità delle coltivazioni è dimostrata anche dal fatto che oltre l’80 per cento dei terreni era adibito a seminativo: i campi occupavano 24450 delle circa 30 mila giornate complessive della superficie utile.
Il Brandizzo li divide in tre categorie di “bontà” e dedica alcune pagine a descrivere con competenza le rotazioni praticate e le produzioni ottenute. Il primo cereale per importanza era la segale (174 mila emine, 31350 quintali), seguita da vicino dal frumento (153 mila emine, 27600 quintali), più distanziati “miglio, formentino e altri marsaschi” (cereali primaverili) con 64 mila emine, 11600 quintali.
I numeri testimoniano della assoluta centralità dei cereali nell’alimentazione (il pane quotidiano) e ci permettono di immaginare una miriade di appezzamenti colorati con tutte le diverse sfumature di verde, giallo e marrone che nelle varie stagioni dovevano abbellire il paesaggio cuneese. Ciò di cui è ormai difficile rendersi conto è invece l’enorme quantità di lavoro necessaria per coltivare, mietere e trebbiare manualmente oltre 7 mila tonnellate di prodotto. La nostra capacità di immaginare (facoltà ben diversa da quella che chiamiamo fantasia) è solo un prolungamento dell’esperienza e ben pochi di noi hanno avuto occasione, nella vita, di guadagnarsi davvero il pane col sudore della fronte, come succedeva prima che la meccanizzazione ci regalasse pagnotte facili e companatico abbondante.
È anche interessante notare la presenza del miglio e del grano saraceno (fromentino), cereali dai semi piccoli ormai in disuso nelle nostre zone. Facevano parte dei “marsaschi” (in occitano “marsengh”), termine che ricorda il mese di marzo e comprendeva tutte le coltivazioni a semina primaverile: orzo, alcune varietà di frumento, miglio, grano saraceno e, a volte, includeva anche leguminose da granella come fave e ceci. Nella rotazione sostituivano spesso il maggese, l’anno sabbatico in cui si lasciava riposare il terreno. In tempi di penuria alimentare lasciare vuoto un campo per un anno intero era infatti un lusso che non ci si poteva permettere.
L’acqua di Stura, Gesso e Grana, che garantiva buoni raccolti e assicurava la sopravvivenza alla popolazione, era anche una delle principali fonti di entrate per il bilancio del comune. Grazie a molte Regie Patenti, “la città è investita di tutte le acque che discorrono per il suo territorio”, scriveva in una nota in calce l’Intendente. Tradotto in linguaggio corrente significa che Cuneo poteva “vendere” l’acqua irrigua in eccesso ai comuni sottostanti: Castelletto, Montanera, Trinità, Benevagienna, Centallo, ricavandone forti redditi sia in moneta che in natura (segale e frumento).
Alla vendita dell’acqua partecipavano altri soggetti (famiglie importanti, ordini religiosi) spartendosi gli introiti che ammontavano a diverse migliaia di lire. Con l’attuale privatizzazione dell’acqua non abbiamo quindi inventato nulla di nuovo: da secoli enti, possidenti e imprenditori riescono a speculare su questo fluido vitale e a trasformare in denari propri il bisogno altrui di irrigare i campi o togliersi la sete.
Una notizia curiosa riguarda il diritto della città di Cuneo “di tenere una nave sul fiume Stura nelli fini di Montanera”. In una nota a piè di pagina il Brandizzo precisa che “non appartiene però la nave alla città” e che si tratta della “prima nave che vi sia sul fiume Stura” (la seconda, citata nella Relazione, era a Fossano).
Da queste righe possiamo dedurre l’importanza del fiume anche per i trasporti e la sua probabile maggiore portata d’acqua rispetto ai giorni nostri. D’altra parte, le annotazioni sulla città si concludono proprio col progetto di un canale navigabile fra Cuneo e Carmagnola, ipotizzato già secoli prima e mai realizzato per l’opposizione delle autorità.
Le entrate del comune erano “molto ragguardevoli” e derivavano soprattutto da svariate gabelle pretese da cittadini e stranieri. La sola gabella “sovra le merci, robbe, vettovaglie e bestiami transitanti” era appaltata per 16 mila lire.
Molto redditizi erano anche i “diritti” di macina e di macellazione. I “deliberatari de’ macelli” dovevano pagare al comune 1450 lire all’anno per il diritto detto di “topaggio” (per l’uso delle “tope” del macello). Alle porte della città il comune “manteneva degli invigilatori” che controllavano che nessuno introducesse in città “della farina senza aver pagato il diritto” o “estraesse del grano di veruna sorte per condurlo al molino senza prender la bolla”.
Documenti di trasporto, bolle di accompagnamento e controlli stradali della “finanza” non sono quindi un’invenzione recente.
L’elenco delle gabelle richieste in città è lungo e dettagliato e il comune faceva cassa tassando ogni sorta di prodotti e di esercizi, dai “rivenditori di carne di porco” ai commercianti di vino al minuto. Si pagava per ogni agnello o capretto portato dalla campagna, per il “bosco che entra in città per far fuoco” (“una legna o fassina per ogni carra di legna o fassine”), per l’uso obbligatorio del peso comune e per molte altre attività.
Allora come oggi la fantasia dei pubblici esattori era capace di scovare ogni modo per prelevare soldi ai cittadini. Era perfino stata istituita una gabella per assaggiare il vino portato al mercato: “la somministrazione delle canne, bicchieri, ponghette e bironi ed ogni alto utensile necessario per tirare i vini” era riservata agli aventi diritto ed era vietato assaggiare la bevanda usando qualsiasi altro mezzo.
Chi ai giorni nostri trova insopportabile la tendenza dei comuni di far cassa con ogni mezzo, dalle strisce blu in perenne crescita alle telecamere per moltiplicare le multe, può consolarsi leggendo queste righe: oggi possiamo almeno bere un bicchiere in santa pace senza dover pagare la gabella anche per l’uso del recipiente.

 

Brandizzo 4 Cuneo (terza parte)
Ben oltre la metà delle molte pagine dedicate a Cuneo nella Relazione del Brandizzo sono occupate da un interminabile elenco di beni delle chiese, parrocchie, confraternite e ordini religiosi.
L’Intendente li annota con la sua solita puntigliosità, seguendo le precise istruzioni dei suoi superiori. Dall’inizio del Settecento, infatti, i Savoia, con le norme sulla Perequazione, avevano iniziato a censire con attenzione i grandi patrimoni fondiari degli enti ecclesiastici, anche in funzione di una possibile tassazione. Molti di questi beni erano infatti ancora “immuni”, cioè esenti da carichi fiscali e la situazione era confusa e poco omogenea. Questo spiega l’interesse del generale delle Finanze che aveva ordinato le Relazioni e il lungo elenco che appesantisce la lettura del testo del Brandizzo.
Cercheremo quindi di riassumere i dati più significativi, senza addentrarci nei particolari. “Saltare” del tutto questa lunga sezione iniziale non è però possibile, perché ci priverebbe di un aspetto importante per la comprensione del periodo storico e della realtà quotidiana del tempo, con importanti riflessi anche sull’agricoltura e sull’economia.
Il territorio di Cuneo era “soggetto a due vescovadi”, quello di Fossano per l’oltre Stura e quello di Mondovì per la parte restante. Le parrocchie erano 8, di cui 3 “nel recinto delle mura” e 5 al di fuori. La parrocchia “più numerosa di popolo” era quella della Madonna del Bosco, l’attuale Duomo, che era “conferita a diritura dal sommo Pontefice”.
Ognuna di queste parrocchie aveva beni e redditi “assai ragguardevoli”, fra cui molte grandi cascine non solo in Cuneo, ma anche in nei comuni vicini. Ad esempio, la parrocchia di Madonna del Bosco possedeva una cascina di 80 giornate a Beinette e una di 85 giornate a Centallo, oltre a molti altri terreni e redditi. La “collegiata” dei canonici, con sede nella stessa chiesa cittadina, possedeva un capitale di quasi 70 mila lire che rendeva 2770 lire annue e tre grandi cascine a Cuneo, Montanera e Cervasca, per un totale di 206 giornate coltivate. La parrocchia della Madonna della Pieve poteva contare sui proventi di una cascina di 84 giornate a Centallo e su altri terreni redditizi, quella di Sant’Ambrogio possedeva una cascina di 58 giornate in Cuneo e una di 82 giornate a Centallo, oltre a 16 giornate di prato in Cuneo.
Meno ricche sembrano essere le parrocchie della campagna: a Passatore il sacerdote doveva accontentarsi “dell’annua prestazione che gli fanno i parrocchiani” che erano obbligati a donare “un’emina di fromento se tengono un aratro”. La discriminante fra ricchi e poveri era proprio simboleggiata dal possesso dell’attrezzo. Coloro che non avevano aratri (e quindi animali da tiro e, di conseguenza, terreni di una certa estensione) pagavano solo 10 soldi.
Il Brandizzo si dilunga non solo a elencare i beni e i redditi di parrocchie, confraternite, compagnie e congregazioni, ma riporta anche tutti gli obblighi a cui erano tenuti i titolari: dal numero di messe annue alla fornitura di cera, vino e ostie, dalla “manutenzione” di un vicecurato alla cura delle suppellettili e biancheria della chiesa. Una precisa contabilità di dare e avere che mescola sacro e profano con la pignoleria del ragioniere.
Oltre alle 8 parrocchie, era importante la presenza di diversi ordini religiosi dentro e fuori la cinta delle mura. I più ricchi in assoluto erano i lontani Padri Certosini che possedevano ben 2700 giornate di terreno nel territorio di Cuneo, tutte “immuni”, cioè non gravate da carichi fiscali. In città vi erano 4 conventi maschili, “tre monasteri di donne” e il collegio dei Gesuiti. Quest’ultimo possedeva oltre a “una assai vasta abitazione”, molte altre case e una miriade di cascine sparse fra Cuneo, Beinette e Fossano. Solo nel territorio di Fossano, i Padri erano proprietari di “7 cassine di giornate 80 per ciascuna, un edificio da martinetto e una resiga”. Poca cosa, scrive l’Intendente, in confronto al reddito ricavato dalla vendita dell’acqua di due bealere, la Leona e la Nuova che partivano da Cuneo per irrigare la fertile pianura di Centallo e Fossano.
La contabilità del Brandizzo ci informa che il convento di San Francesco (proprietario di 175 giornate di terreno in Cuneo e di una cascina a Dronero) “mantiene 11 sacerdoti”, quello dei Cappuccini 8, il convento degli Agostiniani 6 e quello dei Padri Riformati 18. Ogni casa religiosa ha inoltre un congruo numero di chierici, laici, conversi e professi.
Le monache ospitate dai 3 conventi femminili erano in tutto 84. Il convento di santa Chiara, sede attuale del nostro Istituto Agrario, è descritto dal Brandizzo come “vecchio, onde le monache sono mal alloggiate”, ma aveva una chiesa “nuova, molto vaga”.
Farsi monaca costava caro: la dote richiesta “compreso il fardello per la monacazione” era di ben 4000 lire, una cifra davvero ingente per i tempi.
Gli enti religiosi erano allora una potenza anche economica e questo spiega l’attenzione del Brandizzo e dei Savoia alla loro situazione patrimoniale. Rispetto al passato la Chiesa attuale si è certamente “alleggerita” e riavvicinata allo spirito evangelico: come aveva già capito san Francesco secoli prima, i possessi materiali sono spesso un peso e una prigione. Per una corretta analisi della questione occorre però anche ricordare gli aspetti assistenziali e sociali che ruotavano intorno alla religione: quello che adesso è a carico dello stato era allora appannaggio di congregazioni di carità, confraternite, ospizi, orfanotrofi e Monti di Pietà. Quest’ultimo, che funzionava come un banco dei pegni e svolgeva una importante funzione contro l’usura, era stato istituito trecento anni prima grazie alla generosa donazione “di un certo Peverone” e aveva bilanci in attivo.
L’ospedale “serve per gli ammalati, per i pellegrini e per gli esposti, cioè spurii, e vi sono anche alcuni letti di incurabili” e poteva contare sul reddito di 9 cascine e di molte case in città. La Relazione cita di sfuggita anche una “signora medica Pignona”, vedova del defunto dottor Pignone. Non si capisce se il titolo sia solo un riflesso dell’attività del marito o se la signora svolgesse davvero la professione sanitaria, cosa insolita per i tempi.
Stava nascendo in Cuneo anche una fiorente attività proto-industriale, legata alla filatura della seta e localizzata nei sobborghi. Le imprese tessili erano sei con “quaranta piante quasi tutte giranti” e davano “il sostentamento a moltissime famiglie”, oltre a contribuire “alla circolazione del denaro”. Anche per questo il commercio era attivissimo: “vi sono mercanti di ogni sorta di mercanzia”. Non si trattava solo di prodotti locali: i panni arrivavano dalla Francia, le tele dalla Germania, le droghe da Marsiglia.
È il quadro di una società in fase di trasformazione e di sviluppo, ma che non tradisce le radici contadine: “vi sono dei signori e de’ particolari molto danarosi. Il genio però della maggior parte di essi non è rivolto al commercio, ma tutti aspirano a comperar fondi di terra”.

Gli articoli su Cuneo sono frutto del lavoro degli studenti della 4F dell’ITA Virginio-Donadio, in particolare di Nicolò Barbano, Annamaria Lamberti e Matteo Lovera, insieme con gli insegnanti Anna Vivalda e Lele Viola. Pubblicati su La Guida dal 17 al 31 marzo 2016