Spiccioli di economia 13 La torta di Tina

Alla base di tutto il complesso edificio dell’economia, secondo l’impostazione che deriva dalla scuola classica e poi da quella marginalista, c’è la produzione con i suoi fattori: la natura, il capitale e il lavoro. Questi tre componenti vengono combinati e organizzati a piacimento dall’imprenditore per ottenere il massimo profitto possibile.
Figura centrale di tutto lo schema è quindi quella dell’imprenditore, che come un cuoco ai fornelli è libero di dosare i vari ingredienti per preparare il suo personale impasto. Se la torta viene bene, sarà lui a tenersi il profitto. In caso contrario, sarà sempre l’imprenditore l’unico ad assumersi il rischio di una possibile perdita.
Questa impostazione è fortemente radicata e diffusa: nei testi di economia a uso degli studenti che mi è capitato di sfogliare in questi ultimi quarant’anni l’ho sempre vista riproposta, naturalmente con parole più eleganti e precise e ragionamenti più complicati. Il problema di usare questo schema mentale sta proprio nella parola “fattori”, termine di origine matematica che ci fa pensare subito a dei numeri. E in effetti, negli esercizi proposti agli allievi si gioca proprio con i numeri, mescolandoli in diverse proporzioni fino a ottenere il risultato più soddisfacente. Aumento un po’ il capitale e diminuisco in proporzione il lavoro, uso un po’ più di beni naturali e un po’ meno di manodopera. Provo le diverse combinazioni, mescolo, agito bene e metto in forno. Vince chi ottiene la torta più grossa, o fuori di metafora, il profitto maggiore.
I guai arrivano proprio quando usciamo dalla metafora e atterriamo nella vita pratica. I numeri, allora, diventano persone, famiglie, drammi, licenziamenti, natura distrutta, terra fertile sacrificata, paesaggi deturpati. Le ricette proposte dai libri di scuola, allora, non sono più teorie neutrali per esercitare la mente, ma diventano terribilmente reali e dolorose. Lo spostamento di Alpitour a Torino, i licenziamenti alla Embraco, i “fallimenti”, le chiusure, le delocalizzazioni, le “razionalizzazioni” per cui si concentrano in poche grandi strutture ospedali, tribunali, scuole o si chiudono fabbriche e uffici periferici caricando sulle spalle di lavoratori e utenti sacrifici spesso enormi in nome di ipotetici risparmi, sono i risultati pratici di questi giochetti teorici.
Lo studente abituato a combinare fra loro i diversi fattori per massimizzare il profitto diventerà il manager che considera i lavoratori come dei costi da tagliare o l’ambiente come una risorsa da sfruttare. La fregatura è che tutto questo viene considerato “naturale” e viene contrabbandato come un dato di fatto che dobbiamo accettare senza poter far nulla. È un male necessario, dobbiamo farcene una ragione…sembrano suggerirci libri, televisione e commentatori vari.
Margaret Thatcher, primo ministro inglese per tutti gli anni ottanta, paladina del neoliberismo e di una politica estera nazionalista, ripeteva spesso una frase a giustificazione dei suoi interventi drastici in campo sociale, assistenziale e sindacale: “non c’è alternativa”. Usava talmente spesso quest’espressione da farla diventare un acronimo, “TINA”, dalle iniziali delle parole inglesi che esprimono il concetto. Una parola dal suono dolce, Tina, che usiamo come diminutivo per diversi nomi femminili, era diventata lo slogan per giustificare interventi che sono stati definiti di “macelleria sociale” e che hanno portato a una forte crescita delle disuguaglianze e all’isolamento della Gran Bretagna dall’Europa.
Il risultato di questa ricetta proposta e imposta come unica soluzione ai problemi economici lo abbiamo sotto gli occhi. La crisi iniziata nel 2007 e non ancora superata, un aumento sempre crescente del divario fra i pochi ricchi sempre più ricchi e i molti poveri sempre più disperati, i drammi e i problemi dell’emigrazione, l’impoverimento della classe media, l’inceppamento di quell’ “ascensore sociale” che permetteva a tutti di sperare in un futuro migliore.
Dal punto di vista della ricerca intellettuale, le idee che stavano alla base del neoliberismo più gretto che imperversava negli scorsi decenni oggi sembrano passate di moda e ben pochi economisti si avventurano ancora in difese ad oltranza di teorie che sembrano condannate dalla stessa verifica dei fatti. Il problema, come sottolinea anche papa Francesco nella sua Enciclica, è che, pur senza esser più sbandierate da studiosi o politici, nella pratica sono ancora profondamente radicate, tanto da essere “il sistema” che continua a governare il mondo.
Il cambiamento della realtà passa attraverso una presa di coscienza di tutti noi, non facile e non scontata e un conseguente cambiamento culturale. Occorre innanzitutto convincersi che le alternative ci sono e diffidare dei maestri del pensiero unico che propinano rimedi sovente peggiori del male. Bisogna però anche evitare di cadere nelle opposte trappole dell’idealismo sognatore e del massimalismo distruttivo.
La perdita di fiducia nel pensiero unico basato su crescita, sviluppo, liberismo sfrenato e finanza senza regole non deve farci cadere nelle braccia interessate di cialtroni, avventurieri, comici in disarmo o società informatiche che provano sulle nostre teste esperimenti di ingegneria sociale.
Perché, purtroppo, uno degli effetti strani e insieme drammatici del crollo della fiducia in istituzioni, partiti, scienziati e intellettuali è la tentazione di affidarsi ciecamente a imbonitori, stregoni e spacciatori di illusioni. Per un curioso meccanismo mentale, sembra quasi che esperienza, conoscenza e competenza, che un tempo erano considerati requisiti indispensabili per qualsiasi attività professionale o pubblica, siano ora disvalori da cui rifuggire con disgusto o da guardare con diffidenza. Siamo pronti a mettere le nostre vite e il futuro dei nostri figli in mano a persone di assoluta inconsistenza, incompetenza e arroganza, purché “nuove”. Affidiamo il comando della nave a gente che non sa distinguere il timone dalla bussola e ha sempre visto il mare solo dalla spiaggia e lo facciamo proprio in momenti difficili e con minaccia di tempesta.
Uomini, donne, animali, terreni, risorse ambientali e idriche non sono solo numeri e non possiamo ridurli a “fattori” della produzione. Ma i numeri ci possono aiutare a interpretare la realtà e a non dimenticare che la matematica, anche quella finanziaria, è una scienza esatta.
E, come si diceva una volta, un piatto di minestra ha sempre un costo che qualcuno deve pagare. In questi tempi di svendite elettorali conviene ricordarci che il conto di promesse, regalie e favori vari con cui i diversi partiti cercano periodicamente di comprare il nostro consenso lo dovremo, come sempre, pagare noi.

Pubblicato su La Guida del 15 marzo 2018