La buona terra: prezzo e valore

Prezzo e valore non sono sinonimi, anche se nel linguaggio corrente li usiamo come tali.
Il prezzo di un bene si forma per il gioco della domanda e dell’offerta ed è quindi in funzione inversa della disponibilità. Una cosa vale molto perché ce n’è poca, i quadri di Van Gogh valgono milioni perché non se ne faranno più.
Anche i terreni sono beni disponibili in quantità limitata e quindi, in certe epoche e occasioni, possono salire molto di prezzo, in proporzione all’aumento della richiesta. Il problema è dato anche dal fatto che, mentre in passato l’uso pressoché esclusivo dei terreni fertili e idonei era la coltivazione, adesso lo sfruttamento a fini agricoli è solo una delle molte possibilità, e quasi sempre la meno redditizia.
La buona terra può essere usata, oltre che per cereali, legumi e foraggi, anche per fini residenziali, commerciali, artigianali, industriali, per tutte le infrastrutture di viabilità e logistica, e anche per le forme di energia pulita sempre più necessarie per la “transizione energetica”: il fotovoltaico e l’eolico. Come per i quadri di Van Gogh, la disponibilità è quella che è: possiamo andare su Marte, ma non riusciremo mai a creare nuovi terreni. E non potendo adeguare l’offerta alla domanda, il prezzo inevitabilmente sale.
Il valore agricolo del terreno, invece, ci insegna l’economia, è funzione della sua resa, si ottiene cioè capitalizzando a un certo saggio di interesse i redditi netti annuali delle colture. Il reddito netto di chi coltiva la terra, come ben sa chi vive di castagne, cereali, ortaggi, allevamenti o frutteti, spesso fatica a ripagare lavoro e capitale investito. Di “netto”, una volta tolte spese, ammortamenti dei macchinari e costo del lavoro, resta ben poco. Quindi il valore “agricolo” del terreno è relativamente basso, perché funzione dei magri redditi ottenibili e non può competere con gli altri tipi di sfruttamento del suolo.
Per questo motivo, un terreno edificabile per scopi commerciali o residenziali, e anche al giorno d’oggi, un terreno utilizzabile per impianti fotovoltaici, può valere decine di volte il “giusto prezzo” agricolo dello stesso appezzamento. Lo aveva già fatto notare proprio sulla Guida, decenni fa, Gian Romolo Bignami con diversi articoli contro la “rendita parassitaria” che spingeva la speculazione edilizia dei lontani anni 70 del secolo scorso. Proprio Bignami, nella presentazione del suo ultimo libro “Gli uomini e la Terra” si rivolgeva ai giovani (a cui, per ovvi motivi anagrafici è affidato il futuro del nostro pianeta) esortandoli a prendersi cura della gestione del territorio sapendo “distinguere le utilizzazioni razionali dal desiderio, fine a se stesso, di produrre soltanto denaro”.
Motore della speculazione è da sempre la differenza di valore del suolo agricolo rispetto a quello edificabile o altrimenti utilizzabile. Sembra evidente che per togliere alla radice la malerba della speculazione sia necessaria una legislazione semplice e rigorosa che tassi in modo pesante la differenza di valore fra terreni agricoli e quelli destinati ad altro uso. Se io compro un terreno a dieci e senza fargli nulla lo rivendo a cento, incasso novanta senza sforzarmi troppo. Se questo guadagno dovessi comunque versarlo nelle casse pubbliche (come capita in alcuni paesi europei) sarei di certo meno incentivato a questo tipo di speculazioni. E’ curioso che in quest’Italia in cui la pressione fiscale è fortissima sia tassato e tartassato chi compra un immobile e non chi lo vende realizzando a volte forti plus valenze. Tassare chi spende e investe invece di colpire chi guadagna speculando è più semplice e sicuro per le casse dello Stato, ma è comunque una politica fiscale balzana e controproducente.
Dobbiamo essere coscienti del fatto che la crisi ambientale che ha iniziato a manifestarsi dipende in buona parte dall’eccesso di anidride carbonica prodotta dall’uomo, non più in equilibrio con quella consumata dai vegetali. Unico rimedio praticabile, semplice e conveniente è l’uso agricolo del terreno. Prati da foraggio e da pascolo, cereali, legumi e ortaggi per l’alimentazione umana, oltre a nutrirci e abbellire il paesaggio, consumano CO2 e lo fanno con continuità, anno dopo anno. Il valore di un terreno agricolo non è quindi più dato, come ci insegnava l’estimo tradizionale, dall’accumulazione iniziale dei suoi redditi netti, ma anche dagli impagabili effetti positivi sull’equilibrio ambientale, e di conseguenza, sociale. Visto che è difficile (e a volte suicida e controproducente) andare “contro il mercato”, cioè, in altre parole, non si sfugge alla logica dei prezzi determinati dal gioco della domanda e dell’offerta, diventa davvero necessario intervenire con la leva normativa e fiscale, rendendo meno conveniente vendere e comprare terreni per qualsiasi utilizzo diverso da quello agricolo.
Dato che l’aria che respiriamo è di tutti e che i danni del riscaldamento climatico hanno costi concreti e crescenti nel tempo, mi pare giusto far pagare a chi cancella un suolo agrario coprendolo con edifici o infrastrutture almeno una piccola parte del danno che fa alla collettività per il mancato consumo di anidride carbonica “per i secoli dei secoli”. L’estimo e la matematica finanziaria ci danno strumenti per quantificare, almeno in teoria e per la componente monetaria, questo danno futuro.
Mi rendo conto che il ragionamento può essere impervio e anche poco simpatico, ma sono convinto che per fermare la speculazione l’unico modo sia quello di trovare sistemi per cancellarne la convenienza. E, in fondo, mi pare che nella sfera fiscale e normativa della nostra bella Italia ci siano cose molto più complicate, cervellotiche e anche meno sensate.

Pubblicato su La Guida del 9-12-021