Ricordo di Ezio Bosso: far nascere la musica

“Lassù volevano un po’ di buona musica” è il primo commento che ho letto dopo la notizia improvvisa, il 15 maggio, della morte di Ezio Bosso, pianista, compositore, ma soprattutto, grande direttore d’orchestra.
Musicista è chi è capace di far convivere note diverse creando comunque un’armonia e Ezio Bosso aveva la genialità rara di tenere insieme caratteristiche che spesso ci paiono contrastanti se non addirittura opposte. L’estremo rigore dello studio e della preparazione con la giocosità e un pizzico di dolce e composta irriverenza, il meraviglioso sorriso con la serietà e la straordinaria capacità di concentrazione, l’eccezionale disponibilità nei confronti della gente con la ritrosia e il pudore a riguardo della sua vita privata.
Di lui molti conoscono le apparizioni televisive al festival di Sanremo e la sua disabilità, dovuta a una malattia neurodegenerativa, che lo costringeva, come diceva lui stesso, “sulle ruote”. Una disabilità evidente in mezzo a tante altre disabilità meno apparenti, si era lasciato scappare una volta col suo consueto sorriso, riferendosi ai tanti incapaci di superare pregiudizi, gelosie, invidie, ristrettezze mentali. Una malattia terribile con cui conviveva da una decina d’anni, contro cui lottava con la stessa determinazione di quando bambino andava a comprarsi di nascosto gli spartiti di Beethoven.
Una disabilità che non nascondeva, ma dietro cui non si era mai nascosto. La cosa che lo faceva più soffrire era la crudeltà di chi sosteneva malignamente che la sua notorietà fosse dovuta più alla pena per la malattia che alle sue doti musicali. Ma se qualche conduttore televisivo ha approfittato della sua disponibilità per far leva sul pietismo degli spettatori è un motivo in più per non guardare certe trasmissioni, e non se ne può certo fare una colpa al musicista. Chi ha messo in giro certe insinuazioni è gente insensibile, ma anche sorda, evidentemente, perché per apprezzare Bosso come direttore bastava avere orecchie funzionanti.
E l’orecchio di un direttore d’orchestra è sempre stato, per me, uno dei grandi misteri e delle meraviglie della fisiologia e della neurologia umana. Mentre noi, comuni mortali, davanti a un insieme di decine di strumenti percepiamo un unico flusso sonoro, il buon direttore sente anche i singoli suoni separati ed è in grado di capire che il quarto violino della terza fila ha fatto una nota leggermente calante o che il primo flauto ha attaccato la sua parte con un millesimo di secondo di ritardo. Un dono di natura, certo, ma affinato con decenni di studio e di lavoro, e anche, per certi versi, una sensibilità dolorosa nei confronti dei troppi suoni stridenti e dei rumori che appesantiscono la vita quotidiana.
Bosso dirigeva a memoria, come il suo maestro Abbado, e anche questa è una capacità che mi ha sempre stupito. Significa aver studiato e conoscere in ogni dettaglio le partiture di tutti gli strumenti e averle presenti nella mente, come se le si leggesse. E non per una canzonetta orecchiabile di pochi minuti, ma per tutti i complessi passaggi di una lunga sinfonia. Anche qui, dote naturale che si integra con uno studio e un’applicazione sorretti da una passione sconfinata.
Ma la genialità musicale non è l’unica cosa per cui verrà ricordato Ezio Bosso e forse neppure la più importante. Per questo vorrei riproporre qualcuno dei suoi pensieri, usando il più possibile le sue stesse parole.
Visto che ho appena accennato alla sua straordinaria memoria musicale, incomincio proprio dalla memoria. “La memoria è importante perché se non ci ricordiamo possiamo essere manipolati, è importante la memoria della storia”, non solo delle cose brutte (e cita le deportazioni, quando i disabili come lui erano eliminati), ma anche delle cose belle. Memoria è anche “ricordarsi che si può vivere meglio, che esiste la luce, invece spesso a furia di parlar di buio pensiamo che la luce non ci sia più, quindi non la cerchiamo, quindi non ci ricostruiamo”.
Un pensiero che fa capire la profondità e le radici del suo ottimismo, che non è “l’andrà tutto bene”, ma parte proprio dalla consapevolezza della sua condizione: “Non ti so dire se sono felice, ma ti so dire che tengo stretti i momenti di felicità, che li vivo fino in fondo, fino alle lacrime, così come accetto i momenti del buio. Sono una persona normale, a volte ho paura o sono anche arrabbiato, (ma) ho una filosofia, quella di legarsi di più ai momenti felici, perché sono quelli che poi ti serviranno da maniglia per ritirarti su quando sei nel letto e non riesci ad alzarti”.
Un’immagine, questa della maniglia per tirarsi su, che per lui aveva tutta la concretezza dell’esperienza quotidiana. Nel 2011, dopo un’operazione al cervello e la diagnosi della malattia degenerativa, per molti mesi non riesce neppure più ad ascoltare la sua adorata musica e poi deve convivere con crescenti limitazioni. “Sono stato a lungo imbarazzato di questo mio nuovo corpo” ammette, ma poi riesce a reagire e accettare che la vita sia cambiata “e non vuol dire che sia cambiata in peggio perché il mio corpo è cambiato”. Ogni giorno è per lui un regalo e una conquista: “sono fortunato, anche nei giorni più brutti: i giorni brutti passano, i giorni belli restano”.
Oltre al carattere positivo e all’abitudine a lottare, lo aiuta, come sempre, la musica. “La musica mi è venuta in soccorso nei dolori dell’infanzia e dell’adolescenza, ha convertito la tristezza in bellezza, è la rappresentazione divina nelle mani degli uomini”.
Condivide col maestro Abbado la convinzione radicata che la musica sia terapeutica, ma questa non è che una delle sue tante funzioni: “la musica va contro le ingiustizie sociali, pulisce, libera”, dice ricordando la sua esperienza di ragazzo di famiglia non ricca (ha trascorso l’infanzia nella Torino operaia degli anni 70, il papà tranviere e la mamma in Fiat) e le conseguenti difficoltà a entrare e farsi accettare nel mondo, allora un po’ esclusivo, della musica “cosiddetta classica”.
E per capire quanta importanza potesse avere la musica per la vita di quel ragazzino timido, che parlava pochissimo e aveva imparato a leggere le note prima delle parole dobbiamo pensare all’enorme differenza del sentire la musica “da fuori” o dal di dentro, quando la si produce insieme ad altri.
Solo chi ha provato a suonare in gruppo si rende conto che sentire la musica dall’interno, mentre nasce, mentre la si crea, è esperienza che non ha molto in comune con l’ascoltare, magari distrattamente, una melodia alla radio o allo stereo. È esperienza di vita e di creazione, che davvero cura e fa rinascere. Solo così si può immaginare cosa sia stata la musica per Ezio Bosso e per tutti i grandi direttori d’orchestra, capaci, come lui, di “far nascere” la musica.
(continua)
Pubblicato su La Guida del 21-5-020