Fidarsi è meglio

Non ricordo di preciso quando – credo nei primi anni di liceo – ho capito che molte cose proprio non le capivo. Non mi entravano, come si dice. Matematica, logica, filosofia, fisica erano fuori dalla portata dei miei neuroni. Ai tempi, avevo buona memoria, quindi la cosa non era poi un grosso problema e, pur senza capirci granché, riuscivo a navigare senza troppi danni fra interrogazioni e compiti in classe.
Penso che sia proprio per quel mio faticare a capire che ho deciso di guadagnarmi poi da vivere facendo scuola: avevo ben chiaro già allora che chi capisce al volo non sarà mai un buon insegnante, perché dà per scontati tutti quei passaggi che noi comuni mortali dobbiamo faticosamente percorrere per arrivare alla comprensione. Un genio dell’informatica non è quasi mai in grado di insegnare i rudimenti di Word o Excel e un matematico da premio Fields difficilmente ti farà capire il teorema di Pitagora.
Non mi sono mai pentito della scelta, perché fare scuola permette di imparare un sacco di cose, sia come contenuti sia come metodo (a patto, naturalmente, di non dar troppo retta ai guru della didattica e alle ondivaghe indicazioni e prescrizioni ministeriali: come ogni altro mestiere, anche l’insegnamento si impara facendolo e per imitazione, non certo con corsi di formazione e aggiornamento).
Una delle prime cose che ho imparato nei lunghi anni da insegnante è che se tratti gli allievi da lavativi, pigri e imbroglioni faranno di tutto per dimostrarsi tali, mentre se li tratti da persone adulte, capaci e consapevoli si impegneranno al massimo per ricambiare la tua fiducia.
E “fiducia” è proprio la parola chiave che sta al centro di ogni rapporto, di qualsiasi tipo: personale, sociale, economico, spirituale. Perfino quella che definiamo fede non è altro che una forma profonda e, a volte, estrema di fiducia.
La fiducia reciproca è il cuore di ogni relazione e si basa sul doppio impegno di meritarsi la fiducia e di dare fiducia. In termini matematici è una corrispondenza biunivoca, un dare e avere che funziona bene solo in regime di reciprocità, L’insegnante deve per prima cosa meritarsi la fiducia della classe con la correttezza, la coerenza del comportamento e la buona preparazione e poi deve dare fiducia a ogni singolo allievo. Solo così si creerà un clima sereno e produttivo, in cui tutti daranno il meglio di sé, senza dover ricorrere a metodi coercitivi, in genere inutili o controproducenti.
Quello che vale nell’ambito scolastico è altrettanto valido nei rapporti fra cittadino e istituzioni, che in una democrazia rappresentativa sono basati proprio sulla reciproca fiducia fra eletti ed elettori. Anche in questo caso valgono le considerazioni fatte prima: se lo Stato ti tratta da evasore ti adatterai al ruolo, se ti tratta da irresponsabile o da deficiente non sarai incentivato a smentirlo.
È proprio questa mancanza di fiducia da parte delle istituzioni di qualsiasi livello nei confronti di noi cittadini che mi ha maggiormente rattristato nei giorni già poco allegri della crescente pandemia. Sembra proprio che stato, regione e anche comuni ci considerino un branco di irresponsabili del tutto incapaci di pensare e agire correttamente senza il guinzaglio di normative (a volte insensate o addirittura controproducenti e comunque sempre troppo rigide per adattarsi ai mille casi concreti della vita reale) e la minaccia di relative pesanti sanzioni, quasi mai proporzionate al danno arrecato.
Il peso di qualsiasi limitazione delle libertà ricade soprattutto sulle spalle meno robuste dei più deboli e dei meno fortunati e le sanzioni colpiscono sovente chi meno se lo meriterebbe. I ricchi e i potenti sono furbi di loro, non hanno neppure bisogno di fare i “furbetti”, (brutto termine con cui i mass media hanno concentrato lo sdegno del pubblico su innocui camminatori o escursionisti, magari per distogliere l’attenzione da chi qualche responsabilità per il dilagare dell’epidemia ce l’aveva davvero) e chi si meriterebbe le multe spesso non le paga.
Ma già ben prima che il virus si infilasse di prepotenza nelle nostre vite, la fiducia era merce rara nei rapporti con le istituzioni. Si può dire che l’Italia sia diventata una Repubblica basata sulla sfiducia: i cittadini non si fidano di politici ed amministratori, i governanti non si fidano dei cittadini.
Fiducia e sfiducia sono contagiose e si moltiplicano entrambe facilmente: la fiducia genera fiducia e la sfiducia genera sfiducia. Un circolo virtuoso nel primo caso, vizioso nel secondo. Proprio per questo è di vitale importanza che chi ha posti di responsabilità di qualsiasi livello – un insegnante, un dirigente, un amministratore, un politico – sappia prendersi il rischio calcolato di “dare fiducia” agli allievi, ai collaboratori, ai dipendenti, ai cittadini. E faccia di tutto per meritarsi la fiducia dei sottoposti.
Un buon modello da imitare ci viene dai paesi del nord Europa.
Chiara, nostra figlia, vive con la famiglia in Danimarca e questo ci permette di avere un filo diretto quotidiano con una realtà da cui abbiamo davvero molto da imparare. Per la mentalità di questi paesi sarebbe davvero impensabile anche solo proporre norme fortemente lesive della libertà individuale e dei diritti personali, come il confinamento in casa o nei duecento metri adiacenti: un premier che ci provasse dovrebbe cercarsi presto un nuovo lavoro. Lo Stato si limita a prendere i provvedimenti che gli competono e dare indicazioni di carattere generale e ciascuno si impegna ad adattare nella pratica quotidiana le norme condivise di precauzione e buon senso.
Questo clima di fiducia reciproca ha dato frutti molto migliori del binomio nostrano basato su norme restrittive e multe spropositate. Non si tratta solo di un’impressione o di un parere personale: lo dicono i numeri, lo ha detto anche il responsabile per le emergenze sanitarie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha additato la vicina Svezia come esempio da seguire “per attuare una nuova normalità”. Le due nazioni hanno raggiunto risultati molto buoni nel contenimento dell’infezione senza adottare misure troppo restrittive, ma facendo “affidamento sul rapporto con la cittadinanza e sulla capacità dei cittadini di autoregolamentazione”. Nello stesso tempo, lo Stato ha fatto quello che era di sua competenza, aumentando “la capacità delle terapie intensive in modo significativo” in modo da poter gestire senza affanni l’emergenza.
“Se vogliamo tornare in una società in cui non ci siano blocchi e raggiungere una nuova normalità” ha concluso l’alto dirigente dell’OMS è questo il modello da seguire.
Collaborare invece di imporre, responsabilizzare invece di sanzionare, dare fiducia e meritare fiducia. Una ricetta che ritengo valida, perché fidarsi è meglio e la fiducia data e meritata è sempre un buon investimento, l’unico in grado di dare frutti duraturi.
Dobbiamo dar atto ai nostri governanti di aver avuto il coraggio e la prontezza di prendere, nelle fasi inziali della pandemia, decisioni difficili e impopolari ed è bello riconoscere che la reazione della gente, cioè di tutti noi, è stata in genere adeguata e consapevole.
Non riesco proprio a capire come mai chi ha responsabilità decisionali non abbia approfittato di questo insieme di convergenze positive per provare a dare fiducia a noi cittadini, trattandoci da adulti responsabili e non da bambini deficienti. Sarebbe stata un’occasione magnifica per invertire il circolo vizioso della sfiducia reciproca che da anni mina il rapporto fra noi, gente comune, e il lontano mondo della politica.
Invece, sia lo Stato che le Regioni si sono cacciate nel vicolo cieco di normative sempre più dettagliate, rigide e restrittive che richiedono un sistema di controllo degno di un triste stato di polizia.
La logica che sta dietro a questa spirale di crescente sfiducia, aggravata dal sovrapporsi di normative regionali e locali e dal solito codazzo di anticipazioni, interpretazioni e confusione, supera la mia capacità di comprensione, anche perché, per l’inesorabile legge della simmetria, se i governanti non si fidano di me non potranno certo pensare che io mi fidi di loro, quando si presenteranno con la faccia sorridente a chiedermi il voto alle prossime elezioni.
Sarà che anche la politica, come la matematica e la filosofia, rientra in quelle discipline di cui parlavo all’inizio, che fatico a capire e che proprio “non mi entrano”.

Pubblicato su La Guida del 7-5-020