Psicoterapia

“E’ solo una paralisi di Bell”, mi aveva detto sorridendo la neurologa gentile al Pronto Soccorso, dopo avermi provato a lungo riflessi e movimenti.
Ero anch’io molto contento che non si trattasse di un ictus, ma non riuscivo a ricambiare il sorriso: la faccia era completamente bloccata in un ghigno storto. Poi la dottoressa mi aveva spiegato con pazienza che per qualche causa sconosciuta il settimo nervo cranico aveva deciso unilateralmente di entrare in sciopero, rifiutandosi di muovere i muscoli della guancia sinistra, bocca e occhio compresi. Sciopero totale, senza mezze misure, ma si sperava, temporaneo: due settimane nella migliore delle ipotesi, alcuni mesi se le trattative fra corpo e mente andavano per le lunghe. Nel frattempo, dovevo rimpinzarmi del solito cortisone e starmene tranquillo al calduccio.
Faticavo a bere, mangiare, chiudere l’occhio e non potevo sorridere, anzi, lo specchio mi rimandava un’immagine sconosciuta e imbronciata in cui non riuscivo a riconoscermi, che mi invogliava a starmene rintanato in casa, aspettando tempi migliori. Faticavo anche a leggere, così avevo preso il tablet e mi ero rassegnato a sorbirmi con gli occhi socchiusi video di varia natura.
È stato così che ho incontrato Jung.
Sono capitato, senza volerlo, su una intervista del 1959 fatta dalla BBC al grande psichiatra, una lunga chiacchierata in inglese, ma con i provvidenziali sottotitoli.
Jung è ormai vecchio, parla lentamente e risponde alle brevi domande dopo un attimo di riflessione, soppesando le parole. Spesso l’interlocutore gli domanda della sua infanzia e Jung socchiude un attimo gli occhi, come per tornare indietro nel tempo. I rapporti con la madre, col padre, pastore protestante del paese, con i compagni della piccola scuola rurale. Sembra quasi un paziente dallo psichiatra, una sorta di gioco a ruoli invertiti.
A un certo punto l’intervistatore gli chiede se da ragazzo credeva in Dio e lui risponde: “Oh sì”, senza alcuna esitazione.
Subito dopo gli chiede se adesso crede in Dio. “Adesso?” rilancia Jung, come per prender tempo e riordinare le idee. E dopo una lunga esitazione: “Adesso non ho bisogno di credere. Adesso so” (o meglio, conosco: I know).
Risposta telegrafica, senza ulteriori spiegazioni. Più tardi, davanti a nuove domande, dirà “la parola credere mi crea sempre difficoltà: io non “credo”, devo trovare una ragione a sostegno di una certa ipotesi”. E quando l’ipotesi appare ragionevole, conclude, bisogna accettarla.
“Io non credo…so” potrebbe sembrare la solita sparata del solito presuntuoso: chi è sicuro di sapere ha in genere solo una bassa consapevolezza della profondità e complessità dei problemi o un’eccessiva fiducia nei propri mezzi intellettuali.
Ma il vecchietto che, dopo averci ben pensato aveva pronunciato quelle due parole era Carl Gustav Jung, una delle menti più feconde e originali del Novecento e un tipo di sicura affidabilità. E il video, a differenza della trascrizione, permette di vedere l’espressione di chi parla: nello sguardo di Jung non c’era traccia di arroganza intellettuale, ma piuttosto la consapevolezza di un percorso di ricerca durato tutta la vita e la serenità di chi non ha avuto paura di mettersi in gioco e andare controcorrente senza risparmiarsi fatica e sofferenze: “non c’è presa di coscienza senza dolore”.
Il grande esploratore della mente umana, nonostante la sua formazione scientifica e la sua razionalità, sa benissimo che “non dobbiamo pretendere di capire il mondo soltanto con l’intelligenza: lo conosciamo nella stessa misura attraverso il sentimento. Quindi, il giudizio dell’intelligenza è, nel migliore dei casi, soltanto metà della verità”.
Mi sarebbe piaciuto trovarmi nei panni dell’intervistatore e chiedere al vecchio psichiatra se quel Dio che diceva di conoscere aveva ancora qualcosa di quello della sua educazione religiosa infantile (impartita da genitori che vivevano ancora come “nel tardo Medio Evo”) e se nel suo lungo percorso era riuscito a conciliare l’immagine paterna di Dio proposta da Cristo con quel suo sentire la dimensione infinita di ogni cosa e di ogni vita.
La faccia arcigna, o almeno rigida e severa del Dio della sua gioventù deve essersi aperta in un sorriso nel corso dei decenni: “L’umorismo è la scintilla divina presente in ognuno di noi”, diceva Jung e sono pienamente d’accordo, anzi, sono convinto che un qualsiasi Dio senza senso dell’umorismo non sia neppure da prendere in considerazione: è una nostra pericolosa costruzione mentale che offende la sua immagine.
Non mi sono mai interessato di psichiatria, non mi sdraierei mai su un lettino a raccontare i fatti miei a un estraneo, pagandogli pure una salata parcella. Non perché mi ritenga sano di mente, non sono pazzo fino a quel punto. E sono anche convinto che non faccia bene tenersi dentro problemi e ansie. Condivido con Jung la convinzione che “se non si rende cosciente l’inconscio, sarà l’inconscio a guidare le nostre vite e noi lo chiameremo destino”.
Penso quindi che sia indispensabile evocare i fantasmi della mente, dar loro corpo e vestiti e parlarne con qualcuno, ma per questo, salvo casi estremi o patologici, esistono amici ed amiche. L’amico o l’amica, secondo la mia personale definizione, è proprio colui o colei con cui posso confidarmi, aprirmi, dire ogni cosa senza paura di essere catalogato, giudicato, estromesso. Non sembra pensarla in modo molto diverso lo stesso Jung, quando dice: “Crediamo di conoscere totalmente noi stessi. Tuttavia un amico può facilmente rivelarci qualcosa su di noi di cui non abbiamo assolutamente idea…”.
Farsi aiutare è indispensabile, ma poi serve anche mettersi in gioco e non aver paura di guardarsi dentro: “La vostra visione diventerà chiara solo quando guarderete nel vostro cuore. Chi guarda all’esterno, sogna. Chi guarda all’interno, apre gli occhi.”
Jung è forse più noto come psichiatra, ma era anche un bravo scalpellino, uno scultore e un costruttore. Anche questo suo risvolto “manuale” me lo rende simpatico:
“Gradualmente, attraverso il mio lavoro scientifico, potei dare alle mie fantasie una solida base. Carta e parole, però, non mi davano l’impressione di essere abbastanza concrete, avevo bisogno di qualcosa di più, dovevo fare una professione di fede in pietra”. Nasce così l’idea di costruire una casa, anzi una torre, con le proprie mani, sulle rive di un lago. Una casa rotonda con un focolare al centro: “una dimora che corrispondesse ai sentimenti originari dell’uomo”.
Come per ogni altra cosa, Jung fa sul serio: per imparare a spaccare le pietre frequenta per sei settimane una cava dei dintorni. La vita nella casa isolata è fatta anche di piccole cose, accendere la stufa, cucinare, spaccare la legna: “questi atti semplici rendono l’uomo semplice e quanto è difficile essere semplici”.
Già da piccolo aveva un’attrazione per le pietre e i suoi primi momenti di identificazione con la natura risalgono a quando andava a sedersi su un grande masso in giardino: “non nutrivo dubbi che la pietra fosse in qualche oscuro rapporto con me. La pietra non ha incertezze, né bisogno di esprimersi mentre io sono solo un fenomeno passeggero che si consuma in emozioni di ogni genere… Io ero solo la somma delle mie emozioni e qualcosa d’altro in me era la pietra senza tempo…”.
Quando a quattordici anni il padre lo manda in cima a una montagna da solo lui capisce che “qui è il vero mondo, dove non ci sono insegnanti e scuole e dove uno può essere senza dover chiedere nulla… mi trovavo nel mondo di Dio. Qui il suo mondo era tangibile”.
Quel suo percorso, dalla pietra su cui stava seduto in giardino e dalla cima della montagna in cui sente Dio alla lunga e ostinata esplorazione dei recessi della mente umana (la propria, prima ancora di quella altrui) è tutto orientato a una dimensione trascendente e nello stesso tempo immanente. Questo principio che pervade tutto e di cui siamo una piccola parte chiamata a partecipare al grande progetto è sempre presente sullo sfondo, anche senza essere citato esplicitamente, e forse spiega tante cose del discorso junghiano, dalla sincronicità all’inconscio collettivo, fino al processo di individuazione e ai tipi psicologici. Anche la morte, vista come fondamentale esperienza di vita e “altrettanto necessaria che la nascita” rientra in questa logica.
Un percorso affascinate, durato per tutta la sua lunga esistenza e condensato in quelle due parole senza spiegazioni: “I know”, che allora perdono ogni traccia presunzione e si impregnano dello stupore riconoscente di chi sa che “Dio è una sfera infinita, o un circolo, il cui centro è dovunque e la circonferenza in nessun luogo” e che ognuno è obbligato a cercarlo perché “l’uomo non può sopportare una vita priva di senso” e “la più piccola delle cose con un significato nella vita vale più delle più grandi cose che ne sono prive”.
Continuo a essere del tutto ignorante di psicologia, psichiatria e dintorni, ma Jung mi ha tenuto buona compagnia, prima attraverso brevi video, poi con la lettura di alcune sue pagini più accessibili, durante i giorni della paralisi di Bell e credo mi abbia aiutato a recuperare in tempi abbastanza brevi la mobilità della faccia (di certo è stato più efficace del cortisone). Con il mio settimo nervo cranico acciaccato il suo approccio psicoterapeutico sembra aver funzionato bene.
Gliene sono davvero grato, anche perché una vita senza poter sorridere sarebbe veramente triste.

Pubblicato sul Granello di senape del febbraio 2020