Un articolo “di fondo”.

L’editoriale della Guida della scorsa settimana mi ha piacevolmente sorpreso e fatto riflettere.
In realtà, più che di sorpresa, si è trattato di una imprevista conferma. La Guida è un settimanale che ha sempre saputo dare spazio a idee diverse, anche molto lontane da quelle che sono le linee di pensiero del giornale e di ciò che rappresenta. Un confronto vero, che non esclude profonde divergenze e che va al di là del consueto gioco dialettico di chi rimescola sfumature differenti di uno stesso modo di concepire la vita. Un approccio coraggioso, che nasce dalla consapevolezza che non è il diverso modo di pensare a scavare fossati, ma l’atteggiamento con cui ci rapportiamo. Il significato etimologico del termine “diavolo” è proprio “colui che divide”, che fa leva su piccoli appigli per seminare odio e allargare il solco di separazione fino a farlo diventare una voragine. Al contrario, la chiarezza, l’onestà, il coraggio di manifestare le proprie idee, conditi con un sottofondo di benevolenza e tolleranza, permettono di tenere insieme modi di vedere anche molto diversi senza sbandare verso le opposte derive del conflitto, della confusione o dell’assimilazione.
La lettera pubblicata come editoriale rappresenta un efficace riassunto di quelle sensazioni e di quelle paure comuni a molti o a tutti noi, che spesso cerchiamo di nascondere in nome di un incauto ottimismo, di un certo conformismo intellettuale o della volontà di stare alla larga da problemi che giudichiamo insolubili. In altre parole, l’anonimo scrivente ha esternato un pensiero che forse risiede, ben nascosto, nel fondo dell’animo di molti di noi, anche dei più aperti, fiduciosi e ben disposti. E’ l’occasione per tutti di guardarci dentro, di analizzare paure e repulsioni che teniamo nascoste in un cassetto segreto dell’animo e di fare quello che, un tempo, si chiamava “esame di coscienza”.
È un po’ come in campo enologico: non è possibile ottenere un prodotto chiaro e limpido se non si ha il coraggio di togliere la melma che sta nel fondo. Prima di dissociarci, scandalizzarci o prendere le distanze da parole altrui, è necessario capirne le ragioni e, soprattutto, guardarci dentro, per vedere cosa c’è davvero sotto la superficie riflettente che mostriamo agli altri (e spesso anche a noi stessi).
Nelle righe che seguono provo a tirare fuori il mio personale fondo del barile, fatto, come credo per molti, di paure, di opposti sentimenti e di dubbi. Come mi capita a volte, scrivo sul treno, di ritorno da una mattinata a Torino. Per caso, ho attraversato a piedi quartieri in cui non passavo da tempo e mi sono meravigliato nel vedere un gran numero di ragazzi africani agli angoli delle strade e fuori dai bar. Donne poche, e sepolte da veli neri, molti negozi con scritte in arabo. Mi sono ricordato della lettera della Guida e mi sono ritrovato, in parte, nel disorientamento e negli interrogativi che esprime. Mi sono tornate alla mente anche le parole del Dalai Lama che proprio ieri parlava del pericolo di una “arabizzazione” dell’Europa.
Fra gli scossoni del vagone (sempre efficace nel rimescolare i pensieri), ho cercato di guardare dentro le mie e le nostre paure sull’onda di questi stimoli incrociati: una passeggiata in città, uno strano editoriale e la frase imprevedibile di un religioso orientale.
Un fatto innegabile, con cui tutti dobbiamo confrontarci, è l’estrema velocizzazione dei cambiamenti. Un fenomeno di cui parla anche il Papa nella Laudato sii, ricorrendo a un termine della sua lingua materna: “rapidacion”. Ogni generazione ha sempre rimpianto i bei tempi passati, ripetuto che “mala tempora currunt” e ipotizzato l’imminente fine del mondo e ognuno, invecchiando, tende a confondere il proprio personale decadimento con l’eclisse dell’universo. Ma tecnologia e mezzi mediatici hanno moltiplicato per mille la velocità del cambiamento e la conseguente angoscia. Siamo tutti “spaesati” e sconcertati, con la sensazione di ineluttabilità di chi si sente trasportare dalla piena del fiume verso le rapide e non sa neppure da che parte nuotare e a cosa afferrarsi per scampare al disastro.
Se guardo nel mio personale fondo, trovo poi altre paure che hanno radici ancor più profonde. Mi spaventa un certo Islam, e non solo quello delle bombe e dell’Isis. Mi fa paura ogni religione non coniugata con la pienezza della libertà. Ho sempre considerato la peggiore bestemmia voler imporre un Dio, un insulto alla sua onnipotenza immaginarlo bisognoso delle nostre piccole o grandi violenze per realizzare quelli che immaginiamo siano i suoi progetti. Penso che la libertà di scelta sia alla base di ogni relazione e, di conseguenza, costituisca la struttura portante di quel che chiamiamo fede. Per questo considero valore fondante di qualsiasi stato la sua laicità e mi spaventa l’idea di vivere in una “repubblica teocratica” (ossimoro che insulta contemporaneamente la ragione, l’etimologia e il Creatore e costituisce la peggiore delle possibili dittature).
La democrazia, per sua natura, è indifesa contro gli estremismi ideologici o religiosi: tocca a noi imporre norme e limiti che sappiano preservarne l’essenza.
Anche per questo, mi fa paura la mancanza di regole e di rigore che distingue, in negativo, l’Italia dagli altri stati europei. Credo che l’accoglienza sia possibile solo se coniugata con il rispetto rigoroso di precise norme di comportamento e con l’accettazione, da parte di tutti, dei valori che consideriamo fondanti per la nostra civiltà. Tra questi, oltre alla laicità dello stato, la parità di diritti e opportunità fra i sessi e la serena “promiscuità” fra uomo e donna che colora e rende armonica l’esistenza.
Mi fanno paura gli opposti atteggiamenti di razzismo becero e di buonismo ebete, che considero facce della stessa medaglia. Quest’ultimo alimenta l’ideologia razzista, basata su una presunta superiorità, sempre, fra l’altro, contraddetta dalla storia e dai fatti: la razza che si riteneva superiore ha prodotto il peggior genocidio del XX secolo, chi gridava “Roma ladrona”, appena raggiunto un briciolo di potere si è affrettato a comportarsi peggio di coloro che criticava. Ma anche chi è sempre e comunque dalla parte del vero o presunto perseguitato e si affanna a difendere per principio e a prescindere la vasta categoria dei reietti (migranti, profughi, nomadi…) non fa un buon servizio alla verità e finisce per alimentare reazioni di chiusura e di razzismo. Un ladro è un ladro, anche se è zingaro, e chi ha atteggiamenti violenti e oppressivi contro le donne è imperdonabile anche e soprattutto se lo fa per presunti motivi religiosi. Se vogliamo rispettare la Verità dobbiamo abituarci a chiamare le cose col loro nome.
A questo elenco di angosce si aggiunge la paura per una crisi economica strutturale, che alimenta contrasti e problemi. “Non c’è lavoro per noi e per i nostri figli, come possiamo pensare di dare occupazione all’esercito di persone che sono arrivate, che arrivano e che arriveranno?”, viene spontaneo pensare. E la demenziale burocrazia italiana sembra fare di tutto per ostacolare chiunque voglia provarsi a lavorare o a dare lavoro. Eppure, è proprio un’occupazione dignitosa la chiave di tutto. Il lavoro è fattore di libertà, di autonomia, di soddisfazione, di giustizia. Non è possibile e neppure giusto pensare di “mantenere” i poveri, se non per periodi limitati e legati a particolari urgenze. Anche questo è un tema trattato in quella miniera di idee preziose che è la Laudato sii.
L’elenco delle paure sarebbe ancora lungo, tanto da superare i pur lenti tempi di viaggio del treno regionale “veloce”. Mi rendo conto di aver messo nel piatto problemi indigesti che richiederebbero ben altra profondità di riflessione. Ma lo scopo era solo quello di dare una sbirciata al mio personale “fondo” di paure, cogliendo l’occasione della lettera dell’anonimo editorialista.
Come si può capire dallo scritto, pur non condividendone toni e reazioni, mi sono ritrovato in parte delle sue angosce. Diverse sono però le conclusioni che cerco di trarre da questa frettolosa analisi. Non posso negare che “l’invasione” di migranti e profughi alzi il livello delle mie personali preoccupazioni per il futuro, ma più che per causa “loro” sono spaventato per “noi”. L’incapacità di rispettare e far rispettare le regole, la scarsa consapevolezza dei valori fondanti della nostra civiltà (oltre a quelli prima citati, aggiungerei la fraternità, la legalità, l’onestà), la tendenza a chiudere gli occhi e girarsi dall’altra parte, la scarsa conoscenza della nostra stessa storia e delle nostre radici, la spirale perversa della burocrazia che rende difficile ogni tentativo di creare opportunità concrete di lavoro e quindi di vera accoglienza…
Non credo ci siano ricette facili o soluzioni pronte per queste paure che ci angosciano. Come ha ripetuto più volte papa Francesco nell’Enciclica, tutti i problemi del mondo sono fortemente connessi fra loro e ogni cambiamento vero richiede una conversione o rivoluzione che nasce dal di dentro di ognuno e deve concretizzarsi in forme pratiche, politiche ed economiche. Ogni vero cambiamento procede dall’interno all’esterno e trova sostanza nel rapporto con gli altri.
La lettura attenta della Laudato sii ci suggerisce, però, un finale meno angosciante. Il Papa non nasconde i problemi e descrive in modo preciso e impietoso malattie, difetti e brutture del mondo. Ma il tono non è mai cupo, resta sempre un sottofondo di fiducia. Non è facile ottimismo, è quello che definiamo “speranza”.
Dopo aver saccheggiato a piene mani lo scrigno dell’Enciclica papale, per concludere con un livello di citazioni più consono allo stile di questo mio scritto ferroviario, mi viene in mente Rino Gaetano, geniale cantautore morto proprio nel giugno di 35 anni fa. In una delle sue prime canzoni, Rino elencava una lunga serie di persone e situazioni sfortunate, perseguitate dalla sorte e dal peso dell’esistenza. E dopo ogni strofa ripeteva il ritornello: “ma il cielo è sempre più blu”.
Allora non l’avevo capito, ma anche quello era un inno al potere della speranza e un tentativo di affrontare, con la forza di un sorriso anche irriverente, le nostre angosce, personali e sociali. Certo, non basta e non vuol essere una soluzione. Ma è sempre meglio di lasciare fermentare le paure in una rabbia sterile, capace solo di produrre parole pesanti, ulteriori conflitti e amarezza esistenziale.

3-4 giugno 2016

Pubblicato su La Guida del 9 giugno 2016 col titolo “Angosciati dalle nostre paure”