Yuk! No, Iuc

Iuc è un suono onomatopeico che ricorda un po’ Walt Disney.
E’ l’intercalare solito di Pippo (yuk-yuk!) ed esprime un misto fra apprezzamento e soddisfazione. Nella fantasia sfrenata dei nostri legislatori è invece diventato l’acronimo di una nuova tassa: l’Imposta Unica Comunale.  Tributo appena nato, dopo una lunga e complicata gestazione, ma che rischia di battere tutti i record di complicazione e assurdità fiscale.
Cominciamo ad esaminare il triplice nome, che contiene un sostantivo, due attributi, un paio di imprecisioni e una vera e propria fregatura. “Unica” è aggettivo che non ha bisogno di definizioni, lo capirebbe anche un bambino o un analfabeta, ma la nuova imposta “unica” è formata in realtà da un’imposta già esistente, l’Imu, da uno stravagante tributo di fresca invenzione, la Tasi e dalla Tari, la vecchia tassa rifiuti trasformata in tariffa. Una triste trinità fiscale, mascherata da imposta “unica” per contrabbandare una falsa semplificazione che in realtà complica la vita a tutti. Il contrario del tre al prezzo di uno dei supermercati: qui paghi tre per un’imposta che fa finta di essere una.
Naturalmente, ognuna delle signorine che compongono il trio, avrà vita autonoma, scadenze diverse e modalità di calcolo proprie, in modo che, per pagare l’imposta “unica” dovremo fare la coda in banca o alla posta, versando il relativo obolo, almeno una mezza dozzina di volte. Davvero geniale!
Esaminiamo ora nel dettaglio le tre facce dell’unica medaglia, esercizio magari un po’ noioso e doloroso, ma necessario se vogliamo capire dove si nasconde il resto della fregatura.
Sull’Imu c’è poco da dire, ormai è per tutti una vecchia conoscenza. Figlia degenere dell’Ici (imposta comunale sugli immobili) e nipote, dell’ormai lontana Ilor, l’imposta locale sui redditi. Quest’ultima era nata negli anni 70, insieme alla sorella Irpef. La coppia di imposte colpiva i redditi dei cittadini a vantaggio dello stato (l’Irpef) e degli enti locali (l’Ilor) con un meccanismo magari spiacevole per il contribuente come tutti i tributi, ma sostanzialmente giusto. Le cifre pagate per l’Ilor potevano essere detratte dall’Irpef ed erano colpiti i redditi, cioè le entrate, con le opportune detrazioni.
Il cambiamento in negativo (non solo per le nostre tasche, ma per il rapporto di equità e correttezza che deve legare stato e cittadini) è avvenuto negli anni 90 con l’introduzione dell’Ici. Imposta molto più gravosa, che colpiva il valore e non il reddito e non era più detraibile dall’Irpef. Due novità apparentemente “tecniche”, ma in realtà sostanziali. Un conto è pagare sulle entrate effettivamente avute, un altro sul valore del bene. Se ho una castello diroccato che non mi rende nulla ma vale milioni rischio di indebitarmi per pagare imposte su redditi che non ho mai percepito. Lo stesso vale per chi possiede aree edificabili o vecchie case nei centri storici, che possono anche valere molto, ma solo in caso di vendita.
Se poi pago, ad esempio, mille euro di Ici o di Imu non posso più detrarli e su quella cifra pago ancora l’Irpef. Cosa un po’ surreale, perchè significa pagare un’imposta su soldi già versati come imposta: con un’aliquota media del 30 per cento, sui mille euro già pagati come Ici o Imu ne pago altri trecento di Irpef.
L’Imu ha ereditato tutti i difetti dell’Ici aggiungendone di nuovi e aggravando il peso della tassazione. Da notare anche che la buona vecchia Ilor, già sostituita dall’Ici e poi dall’Imu, è rinata sotto forma di “addizionale” regionale e comunale dell’Irpef. Le tasse sono peggio della gramigna, non muoiono mai, anzi, ricrescono molto più invadenti dopo ogni “taglio” (operazione che si fa periodicamente appena prima delle elezioni).
Ma questa è una fregatura ormai datata, la sopportiamo con pazienza da una ventina d’anni e l’abitudine rende meno amare tutte le medicine. La vera novità sta nella seconda sorella, la neonata Tasi, tassa sui servizi indivisibili, esempio emblematico di assurdità, complicazione e ingiustizia fiscale.
In italiano, lingua più precisa di quel triste esperanto che è diventato l’inglese globalizzato, si distinguono le tasse dalle imposte. Le prime servono a pagare un servizio richiesto (ad esempio pago le tasse scolastiche se sono iscritto ad una scuola), le seconde si versano a stato ed enti locali per sostenere tutti i costi generali e non divisibili e sono appunto “imposte”: si pagano e basta, senza ricevere nulla di specifico come contropartita. In cambio delle imposte, stato e comuni ci devono garantire tutti quei servizi che costituiscono il loro scopo sociale, cioè la difesa, la sicurezza, la giustizia, la sanità, l’istruzione, le infrastrutture per la mobilità e la convivenza e via dicendo.
Istituire quindi una tassa “per i servizi indivisibili” è un’assurdità in senso letterale e sostanziale e fa sorgere la domanda: ma allora perchè pago le imposte?
Per completare il quadro surrealista della neonata Tasi si può aggiungere che, come nei secoli bui del medioevo, ogni comune può fare le sue regole, creare le sue detrazioni, fissare le sue aliquote. Effetto perverso dell’ideologia di federalismo e di localismo che ha avuto come risultato non solo il moltiplicarsi di balzelli, regole controlli e controllori, ma anche quello di creare una giungla di normative “locali”, di detrazioni e aliquote degne del periodo feudale. Secondo un  quotidiano economico, le possibili combinazioni diverse della Tasi sono oltre settantacinquemila.
Al contribuente, naturalmente, il piacevole compito di informarsi e aggiornarsi, alla faccia della tanto reclamizzata semplificazione. Senza contare che la prima rata scadeva a giugno, epoca in cui quasi nessun comune aveva ancora provveduto a decidere nulla in merito. Qualcuno l’ha fatto adesso, in tempo per la rata di ottobre, in altri si dovrà aspettare Natale, cosa che permetterà ai cittadini di versare direttamente nelle casse comunali la tredicesima.
Insomma, una commedia degli orrori fiscali o una farsa dell’improvvisazione. Roba che in qualsiasi paese civile sarebbe sufficiente per spedire a casa il governo con annessi e connessi e a fare piazza pulita di tutto l’apparato dirigenziale del ministero che ha partorito la bella novità. Purtroppo, in Italia siamo poco capaci di chiedere conto agli eletti del loro effettivo operato e ci lasciamo abbagliare da annunci, proclami, promesse.
E’ inutile aggiungere la considerazione che aumentare le tasse in periodo di crisi è mossa controproducente che ha per effetto di deprimere ulteriormente l’economia e che crearne di nuove, complicate, imprecise, variegate e incomprensibili è quanto meno poco sensato.
La terza faccia della Iuc si chiama Tari, ed è la vecchia tassa rifiuti vestita a nuovo. Ma credo di aver già preteso davvero troppo dalla pazienza di chi legge e ne parlerò, magari, la prossima volta. Anche perchè, nel settore già poco profumato e gradevole dei rifiuti ci sono novità che meritano discussioni serie e serene e decisioni condivise.
L’Iuc è un regalo della legge di stabilità 2014 (nata, come dice il nome, per rendere stabile la crisi), che a sua volta ha radici e impostazione che arrivano dalla breve ma disastrosa parentesi del governo dei tecnici. In epoche di rottamatori al potere, una riforma davvero necessaria sarebbe la sua immediata cancellazione. Invece di prendersela con il Senato, le Province, la Costituzione o l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori o di inventarsi specchietti per le allodole in salsa elettorale come gli ottanta euro in busta paga, sarebbe molto più efficace che chi ci governa cominciasse a eliminare gli ostacoli alla vita quotidiana e alla “ripresa” da lui stesso creati.
Per concludere con una nota meno opprimente, mi permetto di suggerire al governo i nomi delle prossime tasse. Per farlo non ho dovuto consultare testi di economia, mi è bastato sfogliare qualche Topolino rimasto in quella che era la camera dei bambini.
La prossima imposta potrebbero chiamarla Pfui, o Sgrunt (nomi che avrebbero il vantaggio di esprimere già lo stato d’animo di rabbia o disprezzo del contribuente), oppure Gasp o Acc, per sottolineare una scadenza dimenticata o includere, già nell’acronimo, la prevista imprecazione.

21 settembre 014         Pubblicato su La Guida del 26 settembre 014 con altro titolo