Tecnogoverno

Una delle peggiori disgrazie del terzo millennio sono i cosiddetti “esperti”.
Non parlo, naturalmente, di chi ha davvero fatto esperienza di qualcosa, con la fatica e l’impegno di testa e di mani, pagandone sovente il prezzo in termini di sforzo e di sofferenza. Mi riferisco ai tanti esperti con troppi titoli accademici e nessuna consuetudine con la pratica che vanno in giro lautamente pagati a far danni e in molti casi sono un vero e proprio flagello.
Una particolare sottospecie della categoria in questione, in questo momento al centro dell’interesse mediatico, è quella che possiamo definire dei “tecnici”.
Parola strana, che farebbe pensare a gente capace di riparare la lavatrice o fare manutenzione alla caldaia, usata invece per indicare professori universitari con incarichi di grande prestigio a livello nazionale e internazionale. Parola che si usa in opposizione a “politici”, categoria che allo stato attuale non gode di molta considerazione e che pare valere da salvacondotto per evitare giudizi morali e di altro tipo.
Un tecnico, per definizione, è uno apparentemente fuori dai giochi di potere, estraneo alle tentazioni personali, “programmato” per affrontare e risolvere al meglio una determinata questione.
Con la morte delle ideologie e l’agonia della democrazia parlamentare pare sia finalmente arrivato il loro momento: un gruppo di “tecnici” superesperti sta prendendo in mano l’economia, la nazione e le nostre stesse vite stremate da un ventennio di tragica follia berlusconiana per riportarle sulla retta strada del sano profitto, in modo da far contenta mamma BCE e papà FMI.
Finale in parte scontato: come insegna la dinamica dei fluidi, gli spazi vuoti vengono facilmente occupati. Il vuoto spinto della politica lascia facile spazio ai tecnocrati.
I quali solo apparentemente sono incolori e sfoggiano una neutralità travestita da competenza; in realtà sanno benissimo dove andare e cosa fare.
E lo dicono pure con estrema chiarezza. Vanno dove li porta il profitto, cioè nella solita direzione di crescita, sviluppo, finanza, businnes, grandi opere. Direzione e verso identici ai governi precedenti, solo con meno distrazioni, meno sguardi alle effimere bellezze di ragazzine procaci e più attenzione ai bilanci, meno barzellette penose e più efficienza operativa.
Certo, della caduta del Grande Imbonitore e del suo governo di fascisti e razzisti riciclati, di nani e ballerine, non si può non gioire.
Era quello che tutti aspettavamo con ansia.
E possiamo essere contenti anche del cambiamento di stile, dei discorsi pacati al posto delle pagliacciate offensive, della innegabile competenza che subentra a quell’accozzaglia di dilettanti allo sbaraglio messi a far disastri nei posti di comando che è riuscita in pochi anni a trasformare l’Italia nello zimbello d’Europa.
Possiamo essere contenti della sobrietà, dell’eleganza, dei modi cortesi. E anche della competenza, che è cosa preziosa e rara; del prestigio internazionale e della ritrovata credibilità.
Con un pizzico di sana cattiveria, possiamo anche essere moderatamente soddisfatti dell’autunno del patriarca, della caduta dell’imperatore, del sic transit gloria mundi da lui dedicato al cadavere fresco dell’amico Gheddafi e rimbalzato impietosamente indietro a colpire il mittente. Certo, non è ancora al 41 bis o a vogare su una triremi e neppure deve raccogliere cartoni per difendersi dal freddo notturno o fare la coda per la minestra alla mensa dei poveri, ma non si può pretendere troppo neppure dai sogni.
La gioia della decenza ritrovata e del sipario calato sullo squallido copione quotidiano di un governo da basso impero non può nascondere però la preoccupazione per quello che si intravede e che ci aspetta.
Il Parlamento è ancora sempre quello, fatto di avvocati alle dipendenze dirette dell’ex premier, di collusi con la mafia, di intrallazzatori professionali, di coscienze in svendita a prezzi da saldo, di  strenui difensori dei propri assurdi privilegi. E la – speriamo – definitiva caduta di Berlusconi non segna purtroppo la fine del berlusconismo, malattia penetrata profondamente in tutti gli strati della società, dalla prognosi incerta e dalla tendenza a cronicizzare.
L’opposizione continua a non esistere, intrappolata fra un consenso forzato al nuovo esecutivo, la ricerca di spazi propri, la perenne crisi di identità, ambiziosi rottamatori con ambigue frequentazioni arcoriane, vecchi dinosauri che non si rassegnano all’estinzione e i consueti personalismi esasperati.
Non esiste per la mancanza di personalità affidabili e disinteressate, ma soprattutto per la totale assenza di un progetto credibile e diverso.
Sono concorrenti, non oppositori, termini che non hanno nulla del sinonimo, piuttosto del contrario.
Vendono la stessa identica merce in confezione diversa.  Lo stesso sviluppo, le stesse grandi opere, la stessa Tav a tutti i costi, gli stessi tagli al sociale, le stesse privatizzazioni e liberalizzazioni.
Non si oppongono a niente, non propongono niente: stanno lì in paziente attesa che arrivi il loro turno per abbeverarsi di potere. Concorrenti, appunto, gente che corre insieme, quando non alleati. Ma per nulla oppositori.
Vendono tutti una ricetta identica e per di più perdente, almeno a giudicare dalla storia e dalla cronaca. D’altra parte, basta constatarne gli effetti sul nostro quotidiano. Scuola, sanità, ferrovie, energia, tempo libero: tutto funziona peggio e a costi più alti. Tutti lavoriamo di più pur producendo sovente di meno, siamo più stressati, più tassati e tartassati; siamo meno liberi, meno sereni, sempre alla rincorsa del tempo che ci sfugge, incapaci di rapporti distesi, prigionieri di regole assurde, di norme vessatorie, di ritmi alienanti.
I risultati della liberalizzazione selvaggia sono sotto gli occhi di tutti: dal 2008 sono stati spesi nel mondo 3 mila miliardi di soldi pubblici per salvare banche private, pari al debito di Italia, Spagna e Grecia messi insieme. Cioè 2,6 miliardi al giorno. Presi dai nostri stipendi, dalle pensioni, dai risparmi per tappare buchi creati da aziende slegate da qualsiasi obbligo di responsabilità sociale.
La totale mancanza di regole sul mercato finanziario, che si è venuta a creare dagli anni ottanta in avanti, ha condotto all’attuale disastro, nato dall’ingordigia e dai mancati controlli. Anche chi non è esperto di economia può facilmente capire che non si può governare un settore così importante senza un sistema di norme e vincoli: sarebbe come se da domani abolissimo il Codice della strada e ognuno viaggiasse come vuole: contromano, in senso vietato, alla velocità che crede.
Gli autori del disastro si propongono ora come medici per favorire la ripresa del paziente, nascondendosi dietro il comodo paravento delle loro incontestabili competenze tecniche.
Compito dell’opposizione sarebbe allora proporre un progetto veramente diverso, che regali speranza. Un progetto con la testa nei sogni, ma i piedi ben piantati per terra.
Il seme per questo albero futuro credo sia già nel terreno e vedo molti oscuri contadini che con pazienza e fiducia lo accudiscono e ne favoriscono la crescita. Ma sarà per un’altra stagione, che speriamo tutti possa presto arrivare. Non è ancora per oggi e neppure per domani.
Per ora dobbiamo fare i conti con questo inverno incipiente governato da tecnici competenti, discreti, pacati. Dotati di buone maniere, di un fine humor inglese molto godibile dopo lo svaccamento leghista e lo squallore berlusconiano.
Il classico medico gentile che ti dice con un sorriso che la malattia è gravissima, l’operazione avrà esito incerto, la convalescenza sarà lunga e dolorosa.
E, naturalmente, il conto delle cure sarà salato e a tuo totale carico.
A proposito di conti, il nuovo esecutivo nasce ben attrezzato in materia. A leggere il curriculum dei ministri c’è da chiedersi se si tratti di un governo, sia pure “tecnico” o del consiglio di amministrazione di una banca.
Forse, in questi tempi di crisi del credito alcuni manager si sono riciclati a far altri mestieri. Oppure stan facendo lo stesso mestiere – governarci – ma da posti diversi.
Da tempo, ormai, la vera politica non si fa più nei parlamenti e nei governi, ma nei riservatissimi salotti buoni e nelle grandi istituzioni finanziarie. Tutti sanno che non sono Merkel, Sarkozy e Obama che decidono davvero del nostro presente e del nostro futuro, ma le grandi banche d’investimento e le organizzazioni internazionali della finanza. Multinazionali private ed enti pubblici ma non elettivi capaci di produrre politica e diritto funzionali ai loro particolari interessi.
Qualche tempo fa aveva fatto scalpore un trader che intervistato dalla BBC aveva ammesso candidamente che “era Goldman Sachs a governare il mondo”.
A leggere il curriculum di Monti quel signore aveva certamente ragione, almeno per quanto riguarda l’Italia.
La cosa triste è che dopo la degradante farsa del belusconismo dobbiamo pure essergli riconoscenti a SuperMario e augurargli buon lavoro.
E se la medicina sarà amara, lui non ne avrà colpa. E’ solo un tecnico.
Preparato, competente, gentile. Super partes, cioè da una sola parte, quella tecnicamente giusta.
Interessante notare come la gestazione del nuovo governo abbia potuto contare su una levatrice abile e molto discreta, la CEI. Al  convegno del 17 ottobre di Todi fra i relatori c’erano, guarda caso, Ornaghi, Riccardi e Passera, confluiti con Balduzzi nel nascente esecutivo. Un tentativo riuscito di superare in modo indolore il legame ormai imbarazzante e perdente col berlusconismo e di far nascere la nuova balena bianca, una sorta di neo-DC. In chiave tecnica, naturalmente.
La Chiesa conferma la sua grande abilità nelle manovre di palazzo e potrà stare tranquilla: la scure destinata a colpire i nostri piccoli redditi, i sudati risparmi, le pensioni non sfiorerà nemmeno i suoi privilegi, le esenzioni ICI, l’otto per mille. E aborto, eutanasia, testamento biologico, convivenze non benedette saranno al sicuro nel recinto della sacra ortodossia. Obbligando ex lege anche i non credenti ad adeguarsi a questa strampalata morale cattolica, a mio giudizio molto poco cristiana.
Neppure fra le mura vaticane pare che manchino i bravi tecnici, esperti nell’arte della diplomazia e della contrattazione.
Come italiano mi dispiace per questo ulteriore passo indietro nella conquista di uno stato laico e trasparente. Come aspirante cristiano e cattolico di nascita e tradizione è un’ulteriore pietra d’inciampo sul cammino della fede, quello che i testi biblici definivano con la parola “skàndalon”.