La rivoluzione del fagiolo

“Non lessi libri, quell’anno, zappai fagioli” Così scrive nel suo memorabile Walden, Henry David Thoreau. Uno che, prima di dedicarsi all’orticoltura e all’eremitaggio nei boschi, di libri ne aveva comunque letti molti e buoni.
Dai tempi del geniale americano tante cose sono cambiate…
L’uso di trattore e motocoltivatore permette di conciliare le giuste esigenze dei legumi con il piacere della lettura. Per me non esiste quindi contrapposizione fra il tempo dei fagioli e quello della pagina scritta. Vedo piuttosto la nobile arte del coltivare in alternativa (o meglio, in complemento) ad altre attività.
Ma rimango sempre più convinto del potenziale rivoluzionario della zappa.
Intesa non come evoluzione o alternativa degli ormai desueti falce e martello, ma come strumento di lotta all’invadenza totalizzante della civiltà del mercato (oltre che naturalmente come insostituibile mezzo per estirpare le erbacce).
“Tutto è merce” è il primo comandamento della religione unica che ha ormai conquistato l’intero pianeta, dall’America dello zio Sam alla Cina di nonno Mao, passando attraverso la grassa e vecchia Europa e la giovane derelitta Africa. Neppure le sperdute isole della Polinesia, ultimo rifugio dei Gauguin e dei Vian, neppure i ghiacci eterni dell’Antardide sfuggono a questa omologazione planetaria.
Espresso in termini biblici, questo imperativo categorico potrebbe essere tradotto con la formula: “Io sono il Mercato dio tuo”, seguito dall’immancabile corollario, tipico di ogni religione monoteista che si rispetti: “Non avrai altro dio all’infuori di me”.
Ed è proprio questa pretesa di univocità, di assolutezza, di esclusione che preoccupa. Il problema non è nell’esistenza del mercato (che nessuna persona di buon senso si sognerebbe di contestare), ma nella minaccia che diventi orizzonte unico delle nostre esistenze. Il dramma (di cui sovente stentiamo a percepire effetti e portata) sta nel fatto di aver esteso progressivamente l’ambito delle transizioni monetarie a tutte le attività umane, a ogni tipo di relazione interpersonale.
Tutto si risolve in un rapporto di dare e avere, mediato dallo scambio di denaro. Tra persona e persona, tra gruppi, tra cittadino ed enti pubblici, addirittura fra amici o parenti. Tutto si compra e si vende, tutto deve essere valutato, misurato, pesato. Si dà per avere, trasformando il gesto in investimento.
L’immensa varietà dei rapporti umani si riduce a due sole figure, venditore e compratore, separate dal muro dell’interesse e della diffidenza.
La società di un tempo aveva scarsa circolazione monetaria. La compravendita era riservata a casi particolari, era l’eccezione. Regola era lo scambio, l’aiuto reciproco, il dono, l’autoconsumo (che non ha niente a che vedere con l’autarchia).
Ora i rapporti si sono ribaltati, l’area della gratuità sembra essersi ristretta fino a scomparire, tutto è regolato dalla presenza invisibile e inquietante del dio mercato.
Il cambiamento, come capita spesso per i cataclismi e le variazioni epocali, ha avuto andamento subdolo e decorso quasi impercettibile. Giorno dopo giorno, sulla spinta di pubblicità, media, televisione, modelli comportamentali, addirittura col peso di leggi e normative, il mercato ha invaso il terreno dell’autoconsumo, dell’autoproduzione, dello scambio, dei beni comuni, del dono fino a diventare padrone assoluto delle nostre vite.
In economia lo si definisce monopolio unilaterale. Io lo definirei colonizzazione forzata.
Come un’erbaccia infestante, il mercato ha occupato tutto lo spazio possibile, si è infiltrato fra persona e persona. Ed è riuscito a guastare ogni tipo di relazione, a disgregare la società dall’interno. Padri e figli, amministrati e amministratori, parenti e amici, marito e moglie. Di mezzo c’è sempre un dare e un avere, un fare di conto.
Tutto si paga, prima o poi.
Il metro quadro su cui posteggi l’auto, l’acqua che bevi, lo svago festivo, perfino la casa di tua proprietà su cui lo stato pretende un affitto sotto forma di Ici ed Irpef. Dalla primissima infanzia fino all’estrema decrepitezza è un continuo sborsare. Soldi in cambio di aiuto, di compagnia, di istruzione, di assistenza, di consigli, di cibo, di preghiere, di qualsiasi cosa.
Non ci si può più neppure permettere il lusso di essere poveri.
Il denaro si è infilato nei rapporti interpersonali, come una leva in una fessura, distruggendo il tessuto sociale, minando alla base le stesse comunità e le famiglie. Si è sostituito alla solidarietà, all’aiuto reciproco, all’amicizia. Dalla pubblicità di mamme col pancione della Prénatal, ai seggioloni Foppa Pedretti, al latte artificiale venduto a peso d’oro in farmacia, ai baby parking, su su fino ad arrivare a quei parcheggi a pagamento per anziani che chiamano case di riposo e ai compassati signori vestiti di nero (aria grave e sguardo triste compreso nel prezzo) che ti fanno fare l’ultima lenta passeggiata su una Mercedes passo lungo coperta di fiori (pagati, naturalmente, non raccolti nel prato). Dalla culla alla bara: tutta una vita. Tutto in cambio di rettangoli di carta filigranata.
Tutto.
Fino ad assumere l’apparenza di normalità, a costituirsi in unità di misura, pietra di paragone.
Perché il mercato ha colonizzato anche le nostre teste e ci costringe a pesare ogni cosa con la sua bilancia, a misurare tutto col suo metro. Nessuno scappa. Il tal lavoro è buono (perché è ben pagato). Quella persona vale (perché guadagna bene). Frequento quell’amico (perché mi conviene). Quell’uomo si è realizzato (perché ha avuto successo).
E’ un bravo scrittore (perché vende molto). E’ una bella attività (perché rende). E via dicendo, all’infinito.
Nessuno è immune dal morbo, nessuno può dirsi indifferente alle lusinghe del mercato o non influenzato dalla sua scala di valori. Non lo sono i politici, occupati a rincorrere il PIL e tenersi strette tonnellate di privilegi, non lo è la Chiesa che predica che bisogna pagare le tasse dall’alto delle sue mille esenzioni e dei miliardi dell’otto per mille. Non lo siamo noi, alternativi con la carta di credito e alteromondisti col passaporto UE ben stretto in tasca.
Che fare? direbbe il vecchio Lenin. Lui rispondeva: la rivoluzione; e abbiamo visto tutti come è andata a finire. Con la violenza non si risolvono problemi, si arriva dritti nei gulag. Sogni e utopie invecchiano presto, ingrigiscono prima di barbe e capelli.
Se proprio dobbiamo farla, questa rivoluzione (un pizzico di nostalgia sessantottina rimane sempre ancorato in fondo ai nostri cuori di giovani invecchiati), allora propongo la rivoluzione del fagiolo e della zappa.
O della bicicletta, delle scarpe, della stufa a legna, del forno.
Di qualsiasi cosa che non si compri e non si venda. Che non si misuri in denaro o in tempo.
Quando zappo fagioli (prima o dopo aver letto libri) non faccio crescere il PIL e non contribuisco all’incremento del gettito IVA. Mangio proteine nobili senza far impazzire le mucche. Li cucino sulla stufa senza andare a scroccare gas dalla Russia. Non impoverisco la crosta terrestre di metalli per metterli in scatola né riempio tir e scaffali di supermercati. Non metto mani al portafogli, non do prezzo alla mia fatica, non traduco il mio tempo in monete.
Se vado al lavoro in bici non faccio aumentare la domanda di quel liquido nero che è causa prima di ogni conflitto, produco molte meno polveri sottili di un Euro quattro nuovo di zecca, ossigeno il cervello e posso risparmiare l’abbonamento alla palestra.
E lo stesso potenziale rivoluzionario c’è in ogni attività che cerchi di rompere l’accerchiamento del dio mercato e la sua arroganza totalitaria. Non per eliminarlo, ma per ricondurlo ai suoi giusti confini, in modo da ritrovare lo spazio dello scambio, del dono, del gratuito.
Sono gesti minimi, che hanno valore solo quando diventano sommatoria di molte individualità e si trasformano in comportamenti collettivi, prima, e in scelte politiche, poi. E una piccola rivoluzione, verrebbe quasi da dire, visto che si parla di ortaggi, una rivoluzione del cavolo. Ma la vita mi ha insegnato che la zappa è strumento tenace, che con un paio di scarpe si può andare molto lontano e che due ruote ti possono addirittura aprire il mondo. La povera, vecchia, arrugginita zappa potrebbe anche riuscire dove hanno fallito la falce e il martello.
Comunque, dobbiamo provarci. Dobbiamo spezzare il guscio opprimente del mercato.
Solo allora potremo ritrovare un giusto rapporto col tempo, liberato dall’equazione paralizzante col denaro. Una giusta relazione con gli altri, non più filtrata dagli schermi distorcenti della convenienza. Un’armonia con noi stessi, padroni di godere del dono immenso della vita e di condividerlo con gli altri.

Cervasca, 9 ottobre 2007
Pubblicato sul Granello di senape del dicembre 2007