Antipolitica

Luca Cordero di Montezemolo lo ha detto e subito tutti lo hanno ripetuto a gran voce: -Bisogna abbassare i costi della politica – Qualcuno si è affrettato a stendere ai suoi piedi un tappeto rosso invitandolo (frase già tristemente sentita…) “a scendere in campo”…
L’interessato ha rifiutato cortesemente (per ora), pago di dividere il suo tempo fra i problemi di gomme della Ferrari, il timone di Confindustria, il risanamento della Fiat e qualche dozzina di altre attività minori.
La frase, di per sé, non ha nulla di così eclatante da meritare tanta attenzione mediatica. E’ una di quelle ovvietà che ognuno di noi avrebbe potuto partorire, anche chiacchierando con gli amici al bar o facendosi la doccia.
Ma detta da Lui, non è casuale e neppure estemporanea.
Innanzitutto, è una di quelle frasi costruite su misura per le orecchie degli ascoltatori, quelle che ognuno avrebbe voluto sentire, quelle che ognuno aveva sempre pensato. Al pari di altre, del tipo: – bisogna combattere la criminalità, garantire sicurezza, creare milioni di posti di lavoro, aumentare le pensioni minime, ridurre le tasse -.
Una delle tante enunciazioni di principio che lasciano il tempo che trovano e danno un contentino al pubblico senza far male a nessuno.
E’ evidente, sacrosanto, urgente, indispensabile ridurre drasticamente i costi assurdi di una politica sempre più extraterrestre e lontana dalla vita dei cittadini. E’ indifferibile eliminare i privilegi, abbassare stipendi e pensioni, licenziare portaborse, ridurre le spese di rappresentanza, i viaggi, le delegazioni e quant’altro. E sfoltire il sottobosco dei nostri rappresentanti a ogni livello, nazionale, regionale e locale. Occorre intervenire con la scure o la motosega, non sono più sufficienti forbici da potatura. Questo, credo, lo pensiamo tutti, con accenti di maggiore o minore esasperazione a seconda dell’umore e dei momenti.
E allora perché preoccuparsi tanto per quella frasetta tutto sommato innocua, detta dal capo degli industriali?
La risposta è banale: proprio perché a dirla è stato il Presidente di Confindustria, (e non, che so io, il sottoscritto o il salumiere all’angolo chiacchierando con le clienti o gli avventori del bar in una pausa della partita a carte). Con la massima amplificazione mediatica, in modo che il messaggio fosse raccolto da tutti, a ogni livello. E, per di più, nel momento giusto.
Una bella spallata a un edificio già traballante e a rischio crollo: quello della “politica”.
Qualcuno dei commentatori ha usato, giustamente, la parola “antipolitica”, un neologismo che può rendere l’idea di questa tendenza, demagogica e pericolosissima per la democrazia.
Un primo pensiero – come mi capita, purtroppo, sovente, irriverente – mi è venuto spontaneo, al sentire il Luca confindustriale lamentare l’eccessivo costo della politica: “da che pulpito viene la predica!…”
Sarebbe oltremodo interessante che qualche economista onesto e competente si divertisse a calcolare quanto è costata a noi contribuenti l’industria (e in particolare la galassia Fiat con annessi e connessi), fra incentivi, cassa integrazione, contributi, rottamazioni forzate, bolli differenziati, prepensionamenti e via discorrendo. La casa del Lingotto, che quotava in Borsa circa 5 euro appena due anni fa, oggi è scambiata attorno ai 20 euro. Valore di capitalizzazione quadruplicato: un bel risanamento, una bella corsa. Grazie alle capacità di Marchionne e del Cordero, senza dubbio, ma anche grazie al contributo forzato e inconscio di tutti noi.
E all’occhio di riguardo dei costosi e vituperati politici – sì, proprio loro! – regionali e statali e ai loro stravaganti provvedimenti pseudo-ambientalisti.
“Privatizzare i guadagni e socializzare le perdite” sembra sempre essere stato il motto dell’industria italiana, che ha utilizzato senza scrupoli la politica, adesso tanto deprecata, per risanare i conti a spese di tutti noi. E loro, gli industriali, potete star certi che il “tesoretto” se lo tengono ben stretto, nelle mille scatole cinesi delle SPA, nelle partecipate, negli edge fund e via discorrendo.
Ma fin qui si tratta di ordinaria ipocrisia. La seconda considerazione mi preoccupa molto di più. Perché uccidere la moribonda politica vuol dire dare il colpo di grazia alla democrazia. Mai come adesso pericolante e instabile.
La democrazia è un bel giocattolo, ma è molto fragile. Come una piantina delicata richiede cure e attenzioni continue, da parte di tutti, deve essere annaffiata e protetta dai mille parassiti, dai prepotenti che vorrebbero sradicarla e dai distratti che la calpestano senza neppure vederla..
Al pari di molte altre conquiste personali o sociali di ogni uomo (la gioia, la serenità, la giustizia, la pace, la fratellanza, la fede), anche la democrazia non si ottiene una volta per tutte, ma si costruisce ogni giorno, con sforzo costante. E’ una delle tante mete mai raggiunte che riempiono le giornate di ogni uomo, dall’alba al tramonto e contribuiscono a colorare la vita, a dare un senso al suo trascorrere.
La democrazia non è mai gratis, anche se la mia distratta generazione l’ha ricevuta in regalo. Qualcuno l’ha pagata, e a un prezzo molto elevato. E’ frutto di lotte e sofferenze secolari. E’ costata prigione, lutti, torture. Ci è arrivata, da ultimo, passando attraverso il setaccio di due guerre mondiali, i reticolati dei campi di sterminio, il fumo dei forni crematori.
Noi, e parlo della mia generazione di cinquantenni spaesati e di quelle che seguono, l’abbiamo presa come un dato di fatto, l’abbiamo data per scontata. Come uno dei tanti regali inutili di questa nostra epoca in cui c’è troppo di tutto. Abbiamo ricevuto con indifferenza il dono della democrazia dalle mani dei nostri nonni, dei nostri padri e non l’abbiamo neppure degnato di uno sguardo, come fosse un soprammobile ingombrante. Abbiamo lasciato la piantina in un angolo, senza ricordarci di annaffiarla, curarla, strappare le erbacce.
Ci siamo illusi che la democrazia fosse un meccanismo automatico, che, una volta messo in moto, avrebbe continuato a procedere da solo.
E ora che si è fermato lo guardiamo con stupore e quasi con rabbia. Ce la prendiamo con tutti, coi partiti, coi politici, coi sindacati, con i mezzi di informazione.
Meno che con noi stessi.
Abbiamo una legge elettorale talmente orripilante da esser stata definita “una porcata” dal suo stesso estensore. Candidati imposti da partiti ormai svuotati da ogni reale significato e partecipazione. Partiti e gruppi politici, sovente di pura facciata, abbondantemente foraggiati con soldi pubblici alla faccia del volere del popolo chiaramente espresso in un referendum. Un bipolarismo che ci costringe a scegliere fra il peggio e il meno peggio e che poi, per colmo di assurdità, è ostaggio di minoranze centriste pronte a spostare il baricentro a seconda delle convenienze, cioè a vendersi al miglior offerente. Una percentuale di indagati e condannati nei due rami del Parlamento da fare invidia ad Alcatraz. Un migliaio di candidati per un’elezione comunale per esprimere la scelta fra due persone (con idee, per di più, neanche troppo diverse su molte questioni). Un federalismo che ha prodotto solo la moltiplicazione dei costi e dei posti, creando tante costosissime fotocopie della vituperata Roma ladrona. Una fiscalità allo sfascio, eccessiva, vorace, contorta, complessa e iniqua. E, ciliegina sulla torta, con un preoccupante ritorno al medioevo, in cui ogni comune imponeva i suoi balzelli, le sue regole, le sue disposizioni.
Un bel quadretto!
E’ chiaro che la prima reazione, di fronte a questo scenario, sarebbe di defilarsi. Scappare, ritirarsi. E non c’è da stupirsi se molti lo fanno, se l’affluenza alle urne è in calo patologico, se “politica” diventa una parolaccia.
Se spunta, ammiccante, il suggerimento dell’antipolitica. Perché la democrazia, quella vera, è per molti di imbarazzo, è una scocciatura, un impedimento ai loro affari.
E allora credo sia ora di riprenderci cura di questa piantina sofferente, strappare le erbacce, eliminare i parassiti, darle acqua e luce. Ritornare a occuparci in prima persona della politica, tenerci stretta e difendere con le unghie e coi denti quel che resta della democrazia. Controllare, assillare gli eletti, pretendere resoconti, spiegazioni, in modo che il voto non sia una delega in bianco. Pretendere, innanzitutto leggi elettorali che restituiscano al cittadino il fondamentale diritto di votare chi vuole. E pretendere che amministratori e politici vivano vite ordinarie, senza privilegi, con retribuzioni normali e facciano il lavoro che si sono scelti.
Solo così, e non con la scorciatoia del menefreghismo o dell’indifferenza, potremo ridare fiato alla democrazia.
E tagliare i costi della politica.

Cervasca, 2 giugno 07

Pubblicata su La Guida dell’8-6-07 con altro titolo