La “nostra” terra

Questo strano inverno svuotato da freddo e neve, a mezzo fra un autunno invecchiato male e una primavera cresciuta troppo in fretta, favorisce l’esercizio del pedale. La bicicletta, al riparo -per ora- dalla furia rottamatrice di assessori nostrani e dalla mania euro-omologatoria dei burocrati di Bruxelles, ci consente di godere di questo acconto di tepore senza dover fare i conti con la quotazione del brent, gli umori dell’Opec e la rincorsa fra accise e liberalizzazioni. E, soprattutto, senza rimorsi per le decine di migliaia di morti in Iraq, prezzo del nostro petrolio facile…
…o sensi di colpa per il deserto che regaleremo ai nostri figli.
Pedalare è bello. Favorisce l’ossigenazione del cervello, spazzando via nebbie sempre più persistenti, previene depressioni e acciacchi.
Fin dall’infanzia è una delle mie attività preferite. Il movimento rotondo dei pedali rallenta il tempo, dà senso ai viaggi, riempie di spazi e natura le vacanze, rende accattivante perfino il quotidiano tragitto verso la campanella della scuola.
Da un po’ di tempo, però, questo esercizio salutare e liberatorio mi risulta meno gratificante. A volte addirittura penoso.
Mi sono chiesto quale sia la causa di questo malessere che avvelena la mia convivenza, finora felice, con la più geniale invenzione dell’uomo. Ho dovuto riflettere a lungo, prima di darmi una risposta.
La colpa non è dei muscoli infiacchiti dall’età e neppure dei polmoni a corto di fiato, come pensavo in un primo momento.
La colpa è degli occhi e della memoria.
Gli occhi, che vedono “adesso” e la memoria, che mi fa rivedere quel che c’era “prima”. Due filmati che si sovrappongono. Uno colorato con mille sfumature di verde, marrone, azzurro. L’altro con prevalenza di grigio uniforme. Un contrasto che mi riempie di tristezza e mi costringe a rientrare in anticipo sulla tabella di marcia.
Provate anche voi, se non ci credete. Non c’è bisogno di fare un tragitto particolare, andate pure dove vi pare. Boves, Beinette, Morozzo, Tarantasca, S. Rocco Bernezzo, se volete restare in zona. Ma potete pure spingervi a Bra, Alba, Mondovì, avvicinarvi alle Langhe o avventurarvi nelle vallate. Dappertutto capannoni, case, svincoli, rotonde, lampioni, asfalto dove fino a pochi anni fa c’erano trifoglio e mais, alberi e prati. E chilometri di quelle terribili recinzioni di plastica rossa, promessa di futuro cemento, futuro asfalto e sicure brutture.
Zone industriali, artigianali e residenziali, strade sempre più ampie per correre sempre più veloci e passare sempre più tempo prigionieri di lamiere metallizzate, sottopassaggi, circonvallazioni e ponti autostradali. E centri commerciali, le vere cattedrali dei tempi attuali dove folle di pellegrini automuniti e inebetiti trascinano carrelli inox, solitudine e disperazione nei riti quotidiani del consumo. Dappertutto grigio al posto del verde, cemento a uccidere l’erba, asfalto a coprire per sempre future fioriture. Spariscono i prati, sparisce il paesaggio, scompare la terra.
In pochissimi anni siamo riusciti ad annullare per sempre migliaia di ettari di terreno fertile, disprezzandolo come retaggio di una civiltà povera e arretrata, sacrificandolo con noncuranza sull’altare del profitto immediato.
Eppure, il terreno agrario è il risultato di un lunghissimo lavoro dell’uomo e del pianeta che lo ospita. Uno sforzo che ha mobilitato per milioni di anni tutte le risorse chimiche, fisiche, biologiche della natura per rosicchiare la roccia madre, farla a pezzetti sempre più fini, aggiungere un pizzico di sostanza organica, microflora e microfauna quanto basta, rimescolare il tutto e servircelo.
Poi, sono stati necessari centinaia di anni di lavoro e sudore dell’uomo, generazioni di anonimi passanti che ci hanno preceduto, piedi nudi o zoccoli di legno a pestare questa stessa terra, rivoltarla, concimarla, togliere pietre, scavare canali.
Milioni di colpi di piccone, di zappa, lo sforzo paziente di buoi e cavalli, il ritmo da metronomo delle lame di falci. Una ripetizione ostinata, eterna, fino a consumare l’acciaio, a restituire al pianeta molecole di ferro. Un’abrasione che ha eroso attrezzi, spaccato le schiene degli uomini, scavato solchi sulle facce delle donne.
Uno sforzo congiunto della natura e dell’uomo. Per il credente, una creazione incessante che dura da miliardi di anni, una collaborazione fra Dio e questa sua immagine sfuocata per strappare il mondo dal disordine del caos e consegnarlo alla bellezza del cosmos. Il primo comandamento dettato ad Adamo, avere cura e godere del giardino progettato per la comune felicità.
Una fatica collettiva, una cura amorevole che ci ha consegnato questa terra fertile, accogliente, generosa. Che ha permesso alla nostra generazione (caso unico nella storia e raro nella geografia) di andare a dormire con pance troppo piene e di doversi preoccupare di colesterolo e trigliceridi invece che di rachitismo e pellagra.
Ma, come capita spesso nelle famiglie di facili arricchiti, noi, eredi dell’ultima ora, distratti e arroganti, sprechiamo in modo dissennato il capitale accumulato, spicciolo su spicciolo dalle faticose esistenze di chi ci ha preceduto.
Senza renderci conto che il terreno è un bene indispensabile, irriproducibile, presente in quantità limitata. Serve a darci da mangiare, ma anche a riempirci gli occhi di verde, ad assorbire la violenza della pioggia, ad ospitare flora e fauna. Ha accolto e inglobato le vite che ci hanno preceduto ai diversi livelli evolutivi vegetali e animali, in un perenne ciclo di resurrezione.
La terra ha plasmato le esistenze dei nostri antenati, ne ha accolto i sudori e le speranze, si è riflessa negli occhi stupiti dei bambini e in quelli calmi dei vecchi.
E’ parola sacra: chi legge la Bibbia si imbatte sovente in questo termine. E’ il terzo o quarto in ordine di frequenza, ripetuto 2500 volte nel solo Antico Testamento. Più che in qualsiasi manuale dell’Agronomo o testo di giardinaggio. Fino a diventare, assieme all’aggettivo “promessa”, l’essenza stessa dell’attesa del popolo eletto.
Questa sacralità della terra era scritta nel patrimonio genetico dei nostri padri, in forme di attaccamento che rasentavano aspetti patologici o irrazionali. Lo dimostra la polverizzazione ereditaria delle proprietà in montagna, le liti annose per passaggi, diritti, usurpazioni. Solo nel dopoguerra, stipendi fissi a fine mese e spesa settimanale al supermercato hanno saputo spezzare questo vincolo, annullare la secolare simbiosi.
E hanno capovolto la scala di valori.
La nostra dissennata economia postindustriale ha rimescolato le carte e attribuito ai diversi utilizzi del territorio valori inversamente proporzionali alla logica. Il terreno agricolo vale poco, al massimo una manciata di euro al metro quadro, sovente molto meno. Quello artigianale, industriale, residenziale può valere cento volte tanto. E, siccome la superficie non si può moltiplicare, la terra diventa una torta destinata ad essere divisa in fette sempre più sottili, contesa fra utilizzi diversi.
La legge mette in mano agli amministratori locali la bacchetta magica per operare questa spettacolare moltiplicazione di valore. E aggiunge, come tentazione, la promessa di introiti immediati e futuri. Parole difficili, come oneri di urbanizzazione primaria, secondaria e indotta, contributi sul costo di costruzione, perequazioni varie che si traducono tutte in botte da migliaia di euro per le voraci casse comunali. E poi, naturalmente, puntuale come i solstizi, l’ICI, a giugno e dicembre, per i secoli dei secoli.
Difficile resistere alla tentazione.
E, in effetti, a giudicare dal confronto fra vista e memoria, dai chilometri di recinzioni rosse che fiancheggiano le strade, dai capannoni seminati a spaglio in ogni comune, ben pochi fra gli amministratori locali hanno saputo resistere.
Mentre pedalo fra brutture e tristezze presenti e future mi viene voglia di gridare forte ai politici di ogni ordine e grado che la smettano di giocare a Monopoli con la “nostra” terra.
Mi viene l’istinto di urlare che i comuni non sono società a fini di lucro, che la politica urbanistica non la devono fare gli incassi dell’ICI, che bisogna smetterla di scambiare primogeniture con piatti di lenticchie.
Non ho voce né fisico da urlatore. Mi limito a sussurrare, con parole scritte, che il terreno diventa – troppo – facilmente “fabbricabile”. Ma l’unica cosa che nessuno, per quanto si sforzi, potrà mai “fabbricare” è proprio il terreno.
La “nostra” terra.

Pubblicato su la Guida del 23-2-07 con altro titolo