Tnì da cunt

E’ uno di quei ricordi rimasti incagliati nella memoria per le strane alchimie dei nostri bizzarri neuroni. Risale a quasi cinquant’anni fa. Mio nonno mi teneva per mano: il suo passo da arzillo vecchietto doveva rallentare per adattarsi alle mie gambe ancora corte di bambino. Via Garibaldi, a Borgo, era vuota di macchine e popolata di persone in un rapporto di proporzionalità inversa rispetto ad oggi, tanto da consentirci di passeggiare in mezzo alla strada…
Stiamo per giungere alla porta di casa quando il nonno lascia andare la mia mano e si china, raccoglie qualcosa per terra. E’ un chiodo, storto e arrugginito. Lo accompagno in cantina e lo vedo armeggiare attorno a una morsa, dare colpi di martello. Poi alza lo sguardo e mi fa vedere il chiodo raddrizzato: “Venta tnì da cunt la roba” mi dice, lasciandolo cadere in una scatoletta metallica zeppa di viti, bulloni e punte di recupero.
“Tnì da cunt”, avere cura, non sprecare. Il comandamento di una generazione che si è spaccata la schiena per regalarci questi anni di provvisorio benessere, di illusoria ricchezza. Penso a queste tre paroline mentre leggo l’ennesimo articolo sulla sciagurata normativa regionale che vorrebbe mandare in pensione anticipata buona parte del nostro parco macchine (mentre per noi umani, logori e stanchi, la pensione resterà un miraggio destinato ad allontanarsi sempre più nel tempo).
Penso alla faccia che farebbe mio nonno se fosse qui seduto con me a leggere queste righe. A cosa potrebbe pensare di una legge che obbliga allo spreco, anzi al disprezzo della “roba”. Termine quasi sacro, ma non per il valore venale o per taccagneria spicciola. La roba valeva per il lavoro contenuto, per la fatica necessaria a produrla o acquistarla. E su questo punto concordavano addirittura Smith, Ricardo e Marx, i padri nobili del pensiero economico che, per il resto, avevano idee piuttosto divergenti.
Rovinare, sprecare, gettare un prodotto o un bene ancora utilizzabile era sacrilegio, offesa alla miseria, disprezzo per la fatica, anche, perché no?, un peccato contro quel Dio e quella natura che te l’aveva reso disponibile. Che tutto questo, oltre ad essere diventato un malcostume generalizzato, sia ora addirittura imposto per legge è cosa che supererebbe la capacità di comprensione di nonno Pietro.
E, ad essere sincero, anche quella, molto più allenata e smaliziata, del sottoscritto nipote.
E’ cosa talmente fuori da ogni logica che la maggior parte della gente non l’ha ancora metabolizzata, l’ha confinata nel limbo dell’impossibile, nel “figuriamoci se…”, degli eventi improbabili. Come capita per le assurdità o le cose insensate, il nostro inconscio rifiuta l’evidenza, prende le distanze.
Ma purtroppo è così, caro nonno Pietro. Altro che chiodi: qui ci obbligano a buttare quintalate di acciaio, alluminio, plastica, materiali preziosi e difficili da produrre. E non macchine fruste, stracariche di chilometri e logorate dall’uso. Chi la usa tanto, per necessità o sovente per sfizio, non gira su macchine di quindici anni. E neppure chi ha tanti soldi, chi potrebbe pure permetterselo, di dare il suo personale contributo all’industria automobilistica. Loro no, loro sono a posto, girano “euro quattro” e con la nuova finanziaria, risparmiano pure il bollo.
La legge colpisce chi la macchina la usa poco, chi, come diresti tu, la tiene da conto. Colpisce il mio vicino di casa ottantenne e la sua Panda da diecimila chilometri in tre lustri, lucida come uscisse dal concessionario. Uno che non la lascia parcheggiata al sole perché la vernice si rovina e la lava ogni sabato per andare a Messa la domenica. Uno che negli ultimi dieci anni ha consumato meno petrolio di quello che serve al 18 metri di D’Alema per uscire dal porto.
Colpisce Beppe, il pastore, che ha dovuto comprare un furgoncino d’occasione apposta per portare gli agnelli al mercato. “Trasporto di bestiame vivo”, mica si può fare sulla propria utilitaria. Due annate passate a rastrellare fieno e seguire le bestie al pascolo trasformate in un mezzo meccanico, e ora si ricomincia da capo.
Colpisce chi si ostina ad usare i mezzi pubblici o la bici per il lavoro e le vacanze e alla fine dell’anno si ritrova col contachilometri che si è spostato di poco. Oltre al danno di dover sostenere costi unitari altissimi (bollo, assicurazione, bollini di svariati colori, revisioni, deprezzamento sono costi fissi e incidono in modo inversamente proporzionale all’uso) ora subirà anche la beffa di essere obbligato a buttar via un’auto ancor “nuova”.
Per contro, in questa logica perversa, è premiato chi cambia la macchina sovente. E cioè chi è ricco (ovvero, secondo Padoa-Schioppa, chi supera la soglia dei settantamila euro annui, cifra che personalmente impiego un lustro a guadagnare). Oppure chi fa decine di migliaia di chilometri all’anno.
Insomma, per combattere l’inquinamento si premia chi inquina e si castiga chi fa un uso saggio e moderato della macchina. Geniale!
Senza contare che costruire e demolire macchine è attività che richiede quantità enormi di risorse ed energia, il che si traduce in inquinamento e danni ambientali non indifferenti. E senza contare (e questo gli “esperti” regionali dovrebbero saperlo, bastano nozioni minime di fisica e chimica…) che la tecnologia non potrà mai annullare l’inquinamento e neppure ridurlo oltre una certa soglia, neppure moltiplicando all’infinito il numero che sta dietro la parola “euro”.
Il miglior modo per inquinare di meno è usare di meno l’auto. Esattamente il contrario dello spirito e della lettera di questa brillante iniziativa legislativa.
E se proprio dobbiamo “rottamare” qualcosa o qualcuno…-
A questo punto, nonno Pietro, alzerebbe lo sguardo perplesso, guardandomi con quei suoi occhi chiari, a esprimere una muta interrogazione.
– Scusa, nonno, è vero… Il verbo rottamare non appartiene ai tuoi giorni. Non esiste nel dialetto piemontese dei nostri dialoghi, dei tuoi racconti, della mia infanzia. Non fa niente, non ha importanza. Preferisco il tuo “tnì da cunt”.

Cervasca, 5 ottobre 06 lele viola

Pubblicato su La Guida venerdì 13 ottobre 2006