Una notte alla barma

Una notte alla barma
( riflessioni sull’isola che non c’è)
Melville, autore di Moby Dick, ci era arrivato quando era ancora un ragazzo, dopo mesi di viaggio su una lenta nave a vela. La vita del mozzo, a bordo di una piccola baleniera di metà ottocento doveva essere tutt’altro che romantica: lavori durissimi, disciplina ferrea, promiscuità, solitudine…
Ma l’arrivo alle Marchesi aveva ripagato il futuro scrittore con una visione di quelle che non si dimenticano facilmente: le alte montagne che riflettevano le cime verdeggianti in un oceano di acqua trasparente, la sabbia finissima, le palme sulle spiagge, i colori infuocati del tramonto. E soprattutto loro: le ragazze che sorridendo si erano buttate in acqua ed erano venute a nuoto incontro alla grande piroga degli stranieri esibendo di fronte a una platea di increduli marinai i loro sorrisi e i loro seni nudi.
Un contrasto mica male, dopo mesi di convivenza forzata in spazi ridotti con rozzi esemplari del proprio sesso, spesso sporchi, puzzolenti e di cattivo carattere.
Quella promessa di paradiso era stata una tentazione troppo forte per il giovane marinaio. Al momento di ripartire aveva pensato bene di disertare e darsi alla macchia vivendo un’avventura che anni dopo avrebbe raccontato in uno dei suoi primi libri.
Da allora, le isole dei mari del sud, hanno sempre esercitato un fascino, un’attrazione fatale per ogni spirito romantico, per ogni temperamento artistico, o, semplicemente, per ogni uomo a cui va un po’ stretto il percorso quotidiano casa-ufficio e che coltiva il sogno di un’evasione impossibile.
Tahiti e le isole Marchesi, dopo il racconto di Melville, sono diventate la meta preferita di poeti, romanzieri, pittori e uomini in fuga.
Gauguin era andato a cercarci la purezza dei colori originari e la morbidezza delle forme femminili. Stevenson voleva scoprire la sua personale isola del tesoro. London quel calore che la neve della steppa non poteva regalargli. Il cantautore francese Jacques Brel c’era andato nell’illusione di sfuggire al tumore o almeno con la speranza di incontrare la morte in un ambiente che facesse già pensare un po’ al paradiso.
Tutti cercavano qualcosa che il nostro mondo occidentale aveva irrimediabilmente perduto: l’innocenza, l’utopia di una società semplice e di una vita naturale. Alcuni fuggivano da se stessi, altri cercavano se stessi. Qualcuno faceva migliaia di miglia per lasciarsi indietro la tisi o qualche altra malattia incurabile.. Altri, più semplicemente, volevano sfuggire i creditori, o una moglie insopportabile o un fisco vorace.
Il desiderio di fuga, il sogno di riscoprire su questo vecchio pianeta malandato un angolo dell’Eden che il Signore si sia dimenticato di cancellare dopo la storia della mela, è di tutti gli uomini e di tutte le epoche.
E, normalmente, finisce male.
Nessuno può sfuggire a se stesso, come nessuno può sfuggire alla morte. Tagliarsi le radici, come capisce chi ha esperienza di giardinaggio, è pratica suicida.
Ma, anche se si è coscienti dell’inutilità della fuga, ogni tanto fa bene sognare di andar via, mollare tutto, rinascere nuovi da qualche altra parte, senza legami, senza vincoli, senza il peso del passato e l’obbligo di un futuro predeterminato.
E’ solo un sogno, ma ha valore terapeutico, soprattutto se si è coscienti che, come tutte le utopie, non si potrà realizzare mai in questa vita terrena. Guai a rinunciare ai sogni, guai a smettere di sognare quando ci rendiamo conto che sono desideri irrealizzabili: sarebbe come tagliarsi i ponti per la terra promessa o smettere di credere al paradiso.
La mia via di fuga non passa però per i mari del sud o per le isole tropicali: non ho velieri né carte di credito sufficienti e, per di più, ho radici contadine e montanare, non marinare.
Non posso permettermi, neanche nel sogno, palme e acque azzurre e indigene vestite solo con collane di fiori.
Ma qualche angolo di paradiso terrestre resta tuttavia alla mia portata. La natura incontaminata resiste anche da noi, qualche pezzo sperduto del paradiso originale Dio lo dimenticato anche qui, nella fretta di scacciare i nostri progenitori dal suo giardino.
Sono le montagne, le valli, i boschi.
Non più tutti, purtroppo. Lo sfruttamento turistico esasperato, la grande viabilità esistente e in progetto, la burocrazia dei parchi con le loro selve di cartelli di divieto, i fabbricati costruiti senza rispetto hanno sovente rovinato paesaggi e ambiente. E nei pochi posti belli rimasti, l’affollamento può annullare ogni sogno di evasione. Ora che sci-alpinismo, trekking ( strano vocabolo per indicare la semplice azione del camminare) arrampicata, sono diventate di moda si rischia di fare code per salire al Tibert o trovare ressa sulla nord del Corno Stella.
Cosa resta allora?
Resta la montagna sfigata, quella che nessuno vuole, nessuno conosce. O, meglio, quella che tutti conosciamo e snobbiamo a favore di cime più blasonate e di quote più elevate. In quella fascia di media montagna che non richiama le folle possiamo ancora trovare qualche angolo tutto per noi per sognare uno scampo all’appiattimento della nostra civiltà.
Arrivati a questo punto devo proprio rivelare un segreto.
La mia personale isola dei mari del sud non è molto distante, è facilmente accessibile ed è proprio uno di quei ritagli di Eden che ci rimangono per farci godere ogni tanto un anticipo di paradiso. Per colmo di fortuna è anche mia, nel senso burocratico del termine. Non a tutti è dato di possedere un’isola, sia pure senza oceano, palme e indigene sorridenti. Per ovvie ragioni non posso dire dove si trova. Ma posso cercare di descriverla.
Il sentiero sale a una specie di colletto. Di lì inizia un grande prato in forte discesa circondato da un bosco di faggi. In faccia una rupe scoscesa : rocce grigie che si alternano al verde di alberi e piccole radure.
Dal colle lo sguardo spazia su una serie di montagne senza nome. Millesettecento, millenovecento metri: troppo basse ed impervie per attirare i turisti, troppo selvagge e scoscese per sfruttarne il legname o la poca erba. Sono il regno di cinghiali e volpi. L’uomo, quassù, è quasi uno sconosciuto.
Le piste forestali, che hanno fatto a fette le montagne per ingrassare impresari, progettisti e politici coi soldi europei, si sono fermate più in basso. Le ruspe non sono riuscite ad addentare queste rocce grigie coperte di muschio. I malgari e i pastori, finiti i tempi cupi della fame, disdegnano ormai questi pascoli così ripidi che ci vorrebbero corde e piccozze e così magri che i ciuffi d’erba si possono contare su una mano e sono meno numerosi delle pietre.
Eppure, questi pendii solo cinquant’anni fa erano addirittura falciati. Uomini e bestie si trasferivano qui nella tarda estate e per un mese lavoravano di falce e rastrello, fino a trasformare questa rada erba in un enorme mucchio di fieno odoroso che mettevano al riparo sotto una costruzione in pietra con tetto in paglia. Con le prime nevicate, le corte giornate invernali servivano a portare il foraggio a valle sulle slitte di legno.
La lotta per sopravvivere in tanti, in troppi, abbarbicati a queste montagne, costringeva a non sprecare niente, a racimolare anche il filo d’erba. Mucche e uomini erano accomunati da un’unica sensazione: la fame perenne. Per sopravvivere bisognava sfruttare tutte le risorse. L’unica cosa su cui non si risparmiava mai era la fatica.
Cosa resta di quei tempi di fame e lavoro, ma anche di dignità e di semplice serenità?
Resta lei, la barma, una rozza costruzione in pietra in cui si riparavano nelle troppo corte notti estive i siàire (falciatori), affidando ad un letto di foglie di faggio i sonni profondi che seguivano le eterne giornate di lavoro ritmate dal movimento regolare dei dagn. Non ha più tetto, ma per le mie notti estive il ritaglio di cielo stellato che si intravede tra i resti delle travi è buon compenso per quel poco di freddo e di umidità mattutina.
Ogni tanto fuggo nella mia isola e sogno per qualche ora di essere riuscito nell’impresa impossibile di evadere dalla nostra civiltà. Mi illudo, sia pure per poco, di avercela fatta a trovare l’Eden nascosto, l’isola che non c’è, là dove avevano fallito miseramente i Gauguin e gli Stevenson.
Certo, vivere quassù è scomodo e, alla lunga, sarebbe anche penoso e difficile. Ma ci sono molti innegabili vantaggi
I rapporti col vicinato, che nel mondo civile consumano energie nervose e generano stress, sono estremamente facilitati: non ci sono. Nessun vicino umano nel raggio di chilometri. Con volpi, cinghiali, ghiri, civette: nessun problema.
Nessun contrasto coi colleghi, nessun attrito col datore di lavoro. Niente invidie, piccole gelosie, sgarbi, antipatie. Qui non si è costretti a sopportare l’amico invadente, il capo lunatico, il compagno esuberante, il superiore pignolo.
Diminuito drasticamente anche lo stress da traffico: niente semafori, code, gente parcheggiata in seconda o terza fila, zone disco, sensi unici alternati. Nessuno ti sorpassa a destra. Non devi allacciare le cinture e preoccuparti di pagare tutte quelle infinite tasse occulte che chiamano revisioni, bollini blu, verdi o gialli, patenti che scadono e assicurazioni.
Problemi economici: nessuno. Quassù non ti raggiungono i creditori. Non arrivano bollette e ingiunzioni di pagamento.
Poche occasioni di spendere. Più difficile cascare nella trappola del tre-per-due, della svendita totale causa chiusura, degli stock da fallimento. Niente a interessi zero, TAEG 80%, in milleduecento comode rate giornaliere anticipate da pagare entro l’alba.
Nessuno che ti costringa a rottamare l’auto appena ritirata dal concessionario perché non risponde più alle normative della convenzione di Ginevra e viola il trattato di Yalta e gli accordi di Bretton-Woods. Nessuno obbligo di autocertificare alcunché, nessun tecnico esoso che ti controlla per legge l’impianto termico, elettrico, idro-sanitario a cadenze settimanali rilasciandoti regolare ricevuta, pena la deportazione in Siberia.
Puoi pisciare contro un albero senza avere l’autorizzazione dell’Arpa allo scarico di liquidi inquinanti. E fare addirittura di peggio senza che ti vengano a chiedere la documentazione che attesti la regolarità dello spargimento di deiezioni animali in rapporto alla superficie agraria posseduta.
Niente fisco esoso, nessun modulo da compilare in triplice copia. Abolite le scadenze.
Quassù non arriva neanche la lunga mano del ministro delle finanze, quel triste Robin Hood all’incontrario che toglie ai poveri per dare ai ricchi.
Troppo bello per essere vero!
Posso sdraiarmi la sera sul mio letto di foglie, fissando il cielo stellato dal tetto rotto, senza che venga il geometra del comune a chiedermi il certificato di abitabilità. Faccio scaldare la pasta bruciando rami secchi senza sentirmi domandare il nulla-osta dei vigili del fuoco e senza aver trattato i travi del tetto con dodici mani di vernice ignifuga.
Non spreco parte della mia giornata a far code davanti a sportelli che celano impiegati indifferenti alla parte di mondo da cui li separa la spessa lastra di vetro.
Non prendo bigliettini per prenotare il mio posto in coda e non fisso display luminosi con cifre squadrate che non cambiano mai.
Non leggo riviste illustrate degli anni ’60 seduto su scomode sedie di formica verde nella sala d’attesa del medico e non mi sento rispondere dall’impiegata dell’ASL che il primo posto libero per una visita oculista è nella primavera del 2012.
Posso far finta di vivere in un mondo diverso.
Per qualche ora posso fingere di vivere in un mondo senza troppi rumori, con notti buie illuminate solo dalle stelle e dalla luna e non violentate da troppe luci. Senza gli scarichi puzzolenti delle centinaia di Tir che si arrampicano ogni giorno sulle nostre strade e senza lo spettro di trafori e autostrade che amministratori e politici poco lungimiranti vogliono regalarci contrabbandando interessi loro come progresso.
Quassù, un altro mondo è possibile!
Se chiudo gli occhi e mi rilasso, posso anche sentire in lontananza le onde dell’oceano che si frangono sulla scogliera e il soffio del vento fra le palme.

Pubblicato su la Ciapera del dicembre 2003