Un’ipoteca sul nostro futuro

“Fosse per me, farei tutte le opere cantierabili già domani. Vogliamo un paese pieno di giubbotti arancioni, quelli dei lavoratori dei cantieri”. Sono parole di Massimo Garavaglia, vice ministro leghista all’economia, riportate qualche giorno fa da un quotidiano nazionale nell’ennesimo articolo sulla questione TAV della val Susa. L’ammissione del sottosegretario è una vera e propria dichiarazione programmatica che, con un misto di crudezza e di candore, riassume meglio di tanti discorsi complicati i veri termini della questione.
In Italia, da tempi immemorabili, esiste il partito del “fare per fare”, a cui hanno gioiosamente aderito, nel corso dei decenni, democristiani, liberali, socialisti, “comunisti”, berlusconiani, leghisti e tanti altri.
Non importa che si tratti di strade, autostrade, ferrovie, ponti sullo Stretto, lottizzazioni residenziali, aree industriali, infrastrutture, progetti turistici o del fantomatico “corridoio 5”. Non importa che l’opera sia necessaria, o almeno utile e sensata. Non importa neppure che “renda”, che produca vantaggi, che con gli anni si ripaghi e almeno giustifichi le spese, i disagi e i danni ambientali e sociali.
L’importante è farla, dividendo fra i vari soggetti interessati le enormi quantità di denaro previste per progettazione e realizzazione. Cifre destinate, come sempre, ad aumentare in modo incontrollato passando dalla prima alla seconda fase, come insegna proprio la parte di alta velocità realizzata finora in altre zone d’Italia, in cui i costi sono triplicati rispetto alle previsioni.
Una politica che va avanti da decenni e che ha ricoperto la nostra (un tempo) bella Italia di autostrade assurde, capannoni vuoti, periferie degradate e innumerevoli infrastrutture brutte, inutili e costose, rovinando in modo irreparabile l’ambiente e le nostre reciproche relazioni. Una logica dissennata che ha dirottato immense risorse su grandi opere di dubbia utilità impedendo la manutenzione ordinaria e straordinaria delle piccole e medie infrastrutture di vitale importanza per la nostra vita quotidiana e ha contribuito a creare lo spaventoso debito pubblico che abbiamo accumulato negli anni.
Ha imbruttito non solo l’ambiente, ma anche le nostre vite e i nostri reciproci rapporti, perché, come ricorda Fredo Valla, “con la speculazione edilizia si è modificato non solo il paesaggio urbano, ma anche quello umano”. Le nostre vite sono permeabili al bello e al buono che interiorizziamo attraverso i cinque sensi, ma anche al brutto e allo squallido e non è facile vivere bene con se stessi e con gli altri in un posto diventato meno armonico e accogliente.
Anche per questo occorre prendere le distanze da questo partito trasversale del “fare per fare” e andare fino in fondo per cercare di capire davvero “costi e benefici”, non solo economici, ma anche ambientali e sociali, di qualsiasi opera pubblica proposta.
Cosa che, nel caso della Torino-Lione non è così semplice: a distanza di oltre vent’anni dai suoi primi capitoli, la storia si è talmente ingarbugliata da diventare quasi un simbolo di questa nostra epoca, emblema e raffigurazione di una società confusa, di valori contraffatti o ribaltati e della infinita capacità di manipolazione di chi muove i fili dell’economia e della politica.

La TAV (che poi vorrebbe pure l’articolo maschile, visto che si parla, appunto, di treni, ma la concordanza errata mette l’accento sulla velocità, relegando in secondo piano il fatto che si tratti di una ferrovia) nasce infatti con un doppio peccato originale: la mancanza iniziale di una vera analisi costi-benefici basata su dati realistici e su onestà intellettuale e l’imposizione dell’opera senza vero dialogo alla popolazione di un territorio già massacrato dalle infrastrutture: una ferrovia, due statali, un’autostrada e un traforo a mangiarsi la poca terra del fondovalle e a regalare traffico, inquinamento e mafia. Una “violenza” che si è aggiunta a quelle del passato, la classica goccia che farebbe traboccare ogni vaso, ed è arrivata fino alla militarizzazione di vaste zone della valle. Operazione costosa e fallimentare sia dal punto di vista economico che sociale.
Fin dall’inizio non si è mai discusso veramente SE fare la TAV, ma solo COME farla.
Nelle valutazioni preliminari necessarie per avviare l’iter dell’opera qualcuno deve aver giocato con i numeri, tanto che perfino il Commissario di Governo nel novembre 2017 ha dovuto ammettere che i dati di traffico su cui si erano basati i calcoli di costi e benefici erano palesemente sovrastimati (la quantità di merci trasportate è calata regolarmente dal 1997 al 2017, mentre le previsioni si basavano su una strabiliante e inverosimile impennata).
Un’infrastruttura decisa a priori e da fare a ogni costo, contrabbandata come la soluzione di ogni male della nostra disastrata economia da parte di quel partito trasversale del fare per fare ben riassunto dalle parole del sottosegretario leghista.
La pressione mediatica sul tema è aumentata in modo enorme negli ultimi tempi, forse per paura che per i diversi assetti del nostro complesso sistema politico, l’affare potesse sfumare. Da mesi, l’argomento TAV occupa stabilmente le prime pagine di alcuni quotidiani nazionali: la linea Torino-Lione sembra diventata la questione fondamentale per il futuro dell’Italia e del mondo. In tempi in cui i nostri governanti sembrano fare di tutto per isolarci dall’Europa, renderci antipatici ai cugini francesi, attaccarne i legittimi rappresentanti (la ricerca di un nemico esterno è la classica strategia per distogliere l’attenzione dai propri fallimenti e il primo gradino di ogni incipiente dittatura) pare davvero curiosa tutta questa fretta di unire l’Italia con Parigi…
Raddoppiare e velocizzare una linea ferroviaria esistente e sottoutilizzata è presentata come una questione di vita o di morte per l’intera economia nazionale, come la magica soluzione della crisi, della disoccupazione, della recessione, dell’inquinamento, del riscaldamento climatico.
La confusione (creata ad arte e funzionale al “partito del sì”) nasce anche dal tentativo, ai confini fra il patetico e l’assurdo, di far passare l’opera come utile per l’ambiente e necessaria per ridurre l’inquinamento. Vedere il ministro Salvini che gioca a fare l’ecologista e si mostra preoccupato per l’aumento dell’anidride carbonica e il riscaldamento climatico, affermando che la TAV si farà “perché toglie un milione di tir dalle nostre strade”, fa quasi il paio con l’immagine dello stesso ministro che brandisce il Vangelo in un’altra delle sue tristi carnevalate. Rosari, caschetti da cantiere, giubbotti da poliziotto: tutto è buono per questo grande circo mediatico, in cui qualsiasi pagliacciata sembra andar bene pur di evitare un civile confronto basato su numeri affidabili, previsioni corrette, analisi oneste.
Potenziare il traffico ferroviario, merci e passeggeri, è questione di straordinaria importanza per chiunque abbia a cuore l’ambiente. Ridurre gli spostamenti di merci su gomma e aumentare quelli su rotaia è un obbiettivo fondamentale e condivisibile.
Due paesi, in Europa, sono riusciti a fare significativi progressi in questo settore, la Svizzera e l’Austria. Entrambi sono stati piccoli e compatti e hanno ottenuto questo risultato utilizzando la leva fiscale, cioè tassando fortemente i tir in transito e rendendo così “conveniente” la ferrovia. L’Italia, almeno stando ai dati del suo bilancio (che valgono più di mille parole a vanvera) ha fatto finora una politica esattamente contraria. Non è quindi realizzando a caro prezzo l’ennesima “grande opera” che cambierà qualcosa. Occorre ripensare a rivedere tutta la politica di incentivi, agevolazioni e tassazioni nel settore dei trasporti e, forse, andando ancora più a monte, occorrerebbe ripensare e rifondare questa società, riducendo gli scambi a largo raggio, privilegiando la dimensione locale, puntando sulla qualità di vita e di relazione, piuttosto che sulla quantità di merci da consumare in un folle festino di eterni scontenti e capricciosi insoddisfatti.
Senza contare che il trasporto delle merci su ferrovia è questione più di logistica che di infrastrutture e che le linee di alta velocità, anche se definite per convenienza di “alta capacità”, nei fatti servono poco o nulla per scopi commerciali. In genere, le merci hanno meno fretta delle persone e i tempi di percorrenza contano comunque molto poco in confronto ai lunghissimi “tempi morti”.
Insomma, la TAV, come qualsiasi altra infrastruttura, non è la soluzione al problema, anzi, è l’ennesima opera proposta e imposta dal partito del “fare per fare” destinata a deturpare il paesaggio, rovinare i rapporti sociali, appesantire il debito pubblico, togliere risorse alle necessità vitali della popolazione e dirottarle nelle casse di società industriali e finanziarie.
Non la magica soluzione per i reali problema della recessione economica, della disoccupazione, del traffico e dell’inquinamento, ma l’ennesima ipoteca per il nostro futuro.

25-2-019
Pubblicato sul Notiziario Pro Natura Cuneo di marzo 2019