Due gemelli diversi

Una delle cose belle dell’avere figli e nipoti è che molto spesso non ci assomigliano e non si assomigliano. Non sono nostre fotocopie ringiovanite e migliorate, ma racconti diversi, a volte con differenze sorprendenti che ci aiutano a capire che ognuno è davvero una storia a sé: unica, irripetibile, preziosa.
La stessa cosa sembra valere anche per le parole, che non sono altro che il riflesso e la cristallizzazione della vita vissuta. Ogni parola che l’uomo ha creato (perché, secondo Genesi, Dio ha fatto l’universo, ma ha lasciato a noi il compito di dare il nome a ogni essere vivente, rendendoci così soci dell’impresa creatrice), in ognuna delle miriadi di lingue e dialetti in cui si è divisa nei secoli l’acqua originaria della comunicazione umana, ha in sé caratteri unici e nello stesso tempo legami forti con tutti gli altri termini.
Proprio come capita fra fratelli, sorelle, figli, genitori, nipoti.
Sono sempre stato affascinato dalla magia delle parole, non solo in quanto materiale da costruzione da impilare in frasi, racconti o storie affidate alla voce o alla carta, ma anche in quanto tali, prese singolarmente. Mi emoziona la cattedrale finita, ma resto anche colpito dalla singola pietra, mi piace scoprirne la struttura cristallina forgiata dai sapienti colpi di scalpello del tempo, degli scambi culturali e dell’avvicendarsi delle generazioni.
Per questo, oggi vorrei giocare un po’ con due verbi di uso comune, almeno per chi sente la necessità di non dimenticare la dimensione spirituale dell’esistenza: credere e sperare. Ne avevo già fatto qualche cenno in precedenti chiacchierate, ma oggi vorrei soffermarmi sugli aspetti “grammaticali” di questi due verbi fratelli, legati da complessi rapporti di dipendenza e somiglianza, ma anche da profonde differenze.
Proprio come capita fra gemelli diversi.
Credere è verbo da prima persona singolare, richiede una decisione rischiosa e consapevole, basata sul fidarsi e sull’affidarsi. La decisione più personale fra tutte, che deve maturare nell’assoluta libertà dell’io che si assume il rischio calcolato della scelta, senza condizionamenti famigliari, culturali, sociali e soprattutto “religiosi”.
Sperare è invece verbo da coniugare al plurale: l’unica speranza possibile è quella che ci contiene e coinvolge tutti.
Credere è verbo da usare sempre al presente indicativo. Al passato ha sapore di scuse – credevo che, credevo ma…- al futuro l’inconsistenza delle promesse vane, delle illusioni e delle potenziali fregature.
Esige l’indicativo, il modo del concreto, del reale. Non sopporta congiuntivi e condizionali, ma soprattutto ha un orrore smisurato per qualsiasi forma di imperativo, anche se mascherata da infinito.
Sperare è invece verbo che si nutre di futuro, anche quando lo usiamo al presente. È verbo inguaribilmente e intrinsecamente ottimista: si può sempre solo sperare qualcosa di buono, qualcosa di meglio. È evidente che questa presa di posizione riguardo a un possibile futuro migliore per tutti, che è l’essenza della speranza, si basa sulla fiducia, e perciò coinvolge il fratello gemello. È altrettanto importante, però, capire che la matrice ottimista non è una superficiale vernice di facile spensieratezza, una sorta di lente rosa attraverso cui guardare il mondo per sfuggire alla depressione incombente.
Sperare è verbo concreto, che può esistere solo basandosi su un fondamento affidabile, con una consistenza rocciosa. Altrimenti siamo nel campo dei troppi spacciatori di effimere illusioni o del patetico tentativo di autoconvincerci che sta andando tutto per il meglio. Il training autogeno o analoghe pratiche di autoaiuto sono tecniche che cercano di fare da stampella al nostro incedere a tentoni e traballanti scialuppe a cui aggrapparsi nel naufragio esistenziale. Buone per vendere copie di inutili manuali di falso benessere o per riempire spazi su brevi video che campano contando il numero dei clic.
L’ottimismo di fondo della speranza è altra cosa, tanto che Paolo la associa al termine upomonè, che potremmo tradurre fatica, sopportazione, capacità di attendere senza smarrirsi (1 Tes 1,3).
Sperare è verbo che comporta quindi volontà e resistenza, fino ad arrivare a sperare contro ogni speranza. Non aspettandoci il miracolo, ma mantenendo comunque un fondo di fiducia. Cosa tutt’altro che facile, che può sembrare, a volte, molto oltre ai limiti delle nostre umane possibilità.
Come per il gemello credere, anche sperare è questione di scelta consapevole, di volersi assumere la propria parte di responsabilità e di impegno per un futuro comune migliore, educando se stessi e le nuove generazioni all’ascolto, alla giustizia, alla serenità, alla comprensione, ma anche al necessario rigore.
Entrambi i termini, credere e sperare, sono verbi, esprimono cioè un’azione, non un’idea o un sentimento. Sono nel campo del fare, dell’operare concretamente, non in quello del ritenere o del pensare. Lo sottolineano implicitamente gli stessi Vangeli, in cui si parla ben poco di fede come sostantivo astratto, mentre è invece molto frequente il verbo credere, in greco pisteuo. Addirittura, nel vangelo di Giovanni non c’è mai la parola pistis, fede, mentre il verbo pisteuo è frequentissimo e declinato in varie forme.
Nel verbo c’è l’obbligo di movimento, nel sostantivo c’è la sicurezza e l’immobilità della stasi. Non esiste fede, per Giovanni, esiste solo la tensione del credere, dell’affidarsi.
Non c’è la tranquillità della cosa conquistata una volta per tutte, del traguardo raggiunto, ma lo sforzo continuo della fiducia rinnovata, dell’acconsentire nonostante tutto. Credere non è atteggiamento spirituale o mentale, è “un’opera”, rientra nella categoria del fare: “Cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio? Questa è l’opera (to ergòn) di Dio: credere…” Gv 6, 29. Paolo sembra pensarla alla stessa maniera e anche lui associa alla parola fede il termine ergòn, incasellandola quindi nel mondo delle cose pratiche.
La citazione di Giovanni mi consente anche di tornare alla premessa, al piacere di giocare con le parole, prendendole una per una. L’analisi dei singoli termini è spesso il modo più semplice per avvicinarsi a un testo difficile, come l’ultimo vangelo. Per me, lettore occasionale di testi sacri privo di competenze teologiche, è l’unico approccio possibile al sesto grado del racconto giovanneo. Se non posso scalare l’intera parete, posso sempre affrontare una parola per volta, usandole come fossero appigli per fare qualche piccolo passo.
Credere e sperare, come capita a tutte le parole, non hanno solo i significati alti di cui ci siamo occupati, ma vivono anche nel quotidiano e sono verbi spesso usati nel linguaggio corrente con contenuti completamente diversi da quelli “spirituali”. In questo caso, accettano tutti i modi e i tempi della grammatica, imperativo compreso, e assumono anche senso negativo.
Un esempio consente di chiarire il concetto e di riallacciarci a un’altra recente chiacchierata. Quando si sente il noto ecologista Salvini in divisa da poliziotto e col casco giallo in testa (in occasione della recentissima visita al cantiere della Tav in Val Susa per benedire i lavori) affermare che l’opera è necessaria “per togliere dalle strade un milione di tir” e risparmiare così tonnellate di anidride carbonica, non credere è un obbligo sacrosanto che si merita tutta la forza e la rabbia dell’imperativo. Da anni, infatti, esiste in Italia l’alta velocità ferroviaria e non risulta che siano passati su una linea veloce molti treni merci, per una banale questione di costi e di logistica.
Lo stesso vale, per par condicio, quando vediamo Di Maio far la parodia di Steve Jobs per presentare in pompa magna la tessera del reddito di cittadinanza, assicurando che sarà la soluzione dei problemi del paese (e non un deplorevole strattagemma per “comprare” voti da parte del partito-azienda srl).
Di Maio e Salvini: anche loro in un certo senso due gemelli diversi, ma un unico, reale pericolo per il futuro della democrazia in Italia. Due gemelli a cui è d’obbligo non credere, sperando che siano solo meteore passeggere e non il sintomo di un male irreversibile del sistema politico. Due personaggi che giocano spesso con i numeri, usati per dare una vernice di affidabilità all’inconsistenza delle argomentazioni.
“Dare i numeri” è un’espressione che ben si addice a molte loro recenti affermazioni.
Meglio tornare nel campo delle parole e, per non finire l’articolo con la deprimente immagine di un ministro travestito da poliziotto (significativa allusione non alla Polizia di Stato, ma a uno stato di polizia) e l’altro nei panni del Mago Zurli, riporto una breve frase presa dal Diario di Etty Hillesum, il miglior testo che abbia mai letto per capire cosa significhino davvero credere e sperare, i due verbi di cui stavamo parlando prima di divagare sulle tristezze della nostrana attualità.
Il diario, cioè la vita vissuta fissata su carta dall’onestà di chi scrive anzitutto per sé, è senz’altro più efficace di qualsiasi saggio, trattato o romanzo per trasmettere idee fondamentali. Il sorriso luminoso di Etty, che le compagne di prigionia ricordavano, non è sopravvissuto al campo di sterminio, ma per uno di quei miracoli che Dio ci regala per ricordarci che, nonostante tutto, non ci lascia soli, i suoi appunti sono arrivati fino a noi. Leggerli è il modo migliore di farne memoria e di onorare la “giornata della memoria”.
“Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa malgrado le mie esperienza quotidiane. L’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi”…
“Mi sento responsabile per quel grande e bel sentimento della vita che mi porto dentro, devo cercare di mantenerlo intatto in questo tempo per poterlo trasmettere a un tempo migliore. E’ l’unica cosa che conta e ne sono pienamente cosciente.”
Due frasi di vita vissuta che definiscono, meglio di qualsiasi ragionamento astratto, il significato concreto dei due verbi gemelli, credere e sperare.

Cervasca, 3-2-019 pubblicato sul Granello di febbraio 2019