Autosufficienza 2: buoni dividendi

Chi investe in borsa sul lungo periodo spesso mira al reddito fornito dai dividendi distribuiti dalle società quotate, in genere meno aleatorio delle speculazioni sulle compravendita o del cosiddetto trading.
Anche in campagna si può approfittare dei dividendi distribuiti con generosità dalle piante da frutto e da legno. L’atto del piantare un qualsiasi albero è infatti un investimento di lungo periodo: darà frutto solo dopo anni, ma durerà nel tempo e ricambierà con generosità l’impegno iniziale e la lunga attesa.
Una volta si diceva che chi pianta un noce lo fa per i figli o i nipoti, per indicare che l’albero, prezioso per il legname nobile da trancia o da segheria, raggiunge la maturità commerciale solo dopo molti decenni. Raramente chi l’aveva piantato poteva riscuotere il capitale finale, che andava ai discendenti, ma aveva comunque goduto dei periodici interessi sotto forma di frutti.
La noce è infatti uno dei cibi più salutari che ci regala la natura, ricca di acidi grassi insaturi, di vitamine e di principi attivi preziosi. Mangiare qualche noce ogni giorno è una buona abitudine, che unisce il piacere del gusto e la semplicità del gesto a un’azione concreta per prevenire malattie e conservare una buona salute.
“Pan e nus mangé da spus” si diceva un tempo, e c’è sicuramente del vero in questo detto. Senza nulla togliere all’arte di preparare cibi elaborati e complessi, a volte le sensazioni migliori per il palato sono quelle di cibi semplici e immediati. Mangiare una buona mela o una buona pera, mature al punto giusto, mirtilli o ciliegie raccolte direttamente dalla pianta, noci sane e sgusciate al momento, può regalare soddisfazioni olfattive e sensoriali almeno paragonabili a quelle di un pasto preparato con cura e pazienza. Evidentemente, una cosa non esclude l’altra e possiamo abbinare la sana abitudine di mangiare frutti freschi o secchi al piacere di pranzi e cene con piatti più elaborati e, magari, buone bevande e buona compagnia.
In un passato ormai lontano, il noce era diffuso nelle nostre campagne e nelle basse valli, non tanto per il valore del legname, ma soprattutto perché il suo frutto, oltre a essere prezioso per l’alimentazione, era l’unica fonte nostrana di olio, usato sia a scopi alimentari che per l’illuminazione.
Il Brandizzo nella sua Relazione del 1753 ricorda in molti nostri paesi la buona produzione di olio di noce dei diversi “torchi da oglio” collegati spesso a mulini, segherie e magli mossi da forza idraulica. A Demonte se ne facevano dai 100 ai 400 rubbi all’anno, a Vignolo dai 50 ai 90, Caraglio e Cervasca arrivavano ai 300 rubbi. Le campagne di Cuneo ne producevano quasi 700, ma il fabbisogno annuale degli abitanti della città era calcolato in 4000 rubbi. Il rubbo, tanto per complicare il mondo già poco lineare delle antiche unità di misura, era usato sia per i liquidi (pari a 8,21 litri) sia per i solidi (9,22 kg). I trecento rubbi prodotti da Cervasca equivalevano quindi a un po’ di più o un po’ di meno di 2500 litri, a seconda se consideriamo peso o volume.
Olio e cera erano allora i soli mezzi di illuminazione e nei documenti contabili del tempo sono indicate cifre spesso notevoli per questa voce di spesa in occasione di novene e festività. Ad esempio, a fine Seicento il comune di Pradleves spendeva 50 lire per il “mantenimento della cera e olli alle lampade della chiesa”, in tempi in cui lo stipendio annuo del messo comunale era di appena 12 lire. Nel registro dei conti del 1679 del piccolo comune della Val Grana vi è l’annotazione di una spesa di 7 lire per l’acquisto di ventisette libbre di olio di noce dal Conte Carlo, proprietario del mulino, per “la luminaria della parrocchiale” in occasione della festa del Corpus Domini. Il capitale necessario per la transazione col nobile era stato reperito con la vendita di un vitello di proprietà del sindaco Garnerone, successivamente rimborsato.
A giustificare spese che oggi possono sembrarci eccessive, la considerazione che la luce, in tempi in cui non era diffusa l’illuminazione pubblica o privata, era un’importante componente della festa e la festa era un momento indispensabile per compensare una quotidianità di fatiche e ristrettezze.
Ritornando al tema iniziale, sono convinto che piantare alberi di qualsiasi tipo sia un ottimo investimento da tutti i punti di vista, compreso quello economico. Mangiare la propria frutta, scaldarsi con la propria legna, usare assi e travi del bosco vicino a casa è una soddisfazione che va ben oltre le semplici valutazioni contabili, ma anche restando nel terreno concreto del dare e avere, alla fine i conti tornano e magari si scopre che meli, peri, castagni, noci, ma anche frassini o faggi, hanno prodotto nel tempo dividendi ben più generosi di quelli offerti dalla borsa di Milano, di Londra o di New York.
Col vantaggio, non da poco di questi tempi, di non temere recessioni e crolli, e magari di poter usare rami secchi e residui di potatura come valida alternativa al gas di Putin e compari per scaldarsi nell’inverno incipiente.
Il noce, di cui si parlava prima, è pianta che richiede spazio e luce, oltre che pazienza per i lunghi tempi dei suoi cicli, ed è quindi adatto a chi ha la fortuna di disporre di terreni non troppo piccoli. Quello nostrano era piantato soprattutto per il legname, produceva piante imponenti e non era innestato, ma regalava comunque buone noci per periodi molto lunghi. Si trattava in genere di impianti sporadici, qualche esemplare ai bordi di campi e prati. I nostri vicini francesi da tempo coltivano nelle basse valli alpine una varietà da frutto, detta di Grenoble, con buoni riscontri economici, quindi anche il noce potrà subire la stessa sorte di castagni e noccioli e diventare un “normale” albero da frutta inserito in un impianto intensivo, con i relativi vantaggi e svantaggi.
Per ora, godiamoci i frutti che ci regala questo nobile albero nostrano, e magari piantiamone ancora qualcuno, come simbolo di speranza, investimento per il futuro e antidoto alla fretta esistenziale dei nostri giorni.

Pubblicato su La Guida del 20-10-022