Sutina 2: acqua, terra e democrazia

La nostra memoria è tarata sull’esperienza personale, lunga al massimo qualche decennio, e non ci permette di confrontare con validità scientifica, o almeno con sufficiente correttezza, dati di lungo periodo. Inoltre, la memoria è sempre una lente deformante, e quello che pensiamo di ricordare sono spesso i nostri stessi ricordi, invece dei fatti reali.
Anche per questo, quando viviamo eventi climatici particolari, ci sembra che siano situazioni estreme, senza paragoni con altre già successe in precedenza.
Se curiosiamo nel passato dei nostri paesi e delle nostre valli, ci imbattiamo invece con regolarità in annate agricole “anomale” per quanto riguarda le precipitazioni, tanto da far quasi pensare che il tempo favorevole e “normale” fosse una rara eccezione.
A titolo di puro esempio, in alta val Grana a inizio Novecento due anni consecutivi di siccità (1908-9) annullarono la produzione di erba e fieno, con conseguente moria del bestiame. Stessa cosa nel 1929, anno in cui, nonostante l’utilizzo massiccio di fronde di alberi, molti dovettero svendere gli animali o vederseli morire di fame. L’emigrazione definitiva verso la Francia o la lontana America ha avuto un’impennata proprio in quegli anni, iniziando quel processo di svuotamento delle nostre borgate che non si è più arrestato.
Pochi anni prima, nel 1893, invece, le piogge torrenziali provocarono oltre 600 frane nella strada fra Castelmagno e Pradleves, isolando per lungo tempo il centro dell’alta val Grana. Qualche anno dopo, nell’inverno 1933-34, scese una tale quantità di neve da provocare disastri e rovinare la quasi totalità degli edifici del paese (su 373 fabbricati 298 necessitavano di riparazioni e 44 erano da ricostruire totalmente).
Già nel Settecento c’è abbondante documentazione di eventi climatici avversi e di annate siccitose. Nel triennio 1732-34, ad esempio, l’intero Piemonte patì una gravissima carestia, legata anche alla siccità, con crollo delle rese dei cereali e crescita del tasso di mortalità per carenze alimentari non solo nelle campagne, ma anche nella città di Torino.
Una situazione drammatica, che si aggiungeva allo stato di perenne guerra, alla tassazione insensata e alle ricorrenti epidemie di afta, e che portò nei nostri paesi al dimezzamento del numero di bovini allevati, in tempi in cui zootecnia e agricoltura si integravano a vicenda per fornire le risorse alimentari necessarie alla sopravvivenza.
La necessità di irrigare i campi, e nel contempo, smaltire l’acqua in eccesso durante le alluvioni, portò già nel Quattrocento alla realizzazione della rete di “bialere” che ancora oggi disegna l’altopiano cuneese e le basse valli. Un fenomeno storico di immensa portata, dettato anche dalla ripresa demografica successiva alla peste del Trecento, che cambiò anche la struttura sociale e le dinamiche dei rapporti fra pianura e montagna.
Anche nelle valli si scavavano canali, affrontando ancora maggiori difficoltà a causa della morfologia irregolare del territorio e della presenza di rocce. Un lavoro impegnativo, che richiedeva la partecipazione di tutti.
Secondo alcuni studiosi nasce proprio dalla necessità di costruire e mantenere le opere irrigue quel primo fermento di autogestione che porterà allo sviluppo di pratiche e istituzioni democratiche. I “consortes bealeriarum”, soci nella costruzione e manutenzione del canale irriguo, erano obbligati a sperimentare difficoltà e vantaggi di una gestione comune, a darsi regole accettate da tutti, a mantenere in limiti accettabili la litigiosità e a contribuire alle spese. Un insieme di cose che ha portato a sviluppare una mentalità nuova e diversa rispetto alla semplice obbedienza a un potere centrale e ha fatto gustare il piacere, i vantaggi e anche le difficoltà dell’autonomia e dell’autogestione.
Da sempre, acqua e terreni coltivabili sono risorse strettamente collegate, fondamentali non solo per procurarsi il cibo per vivere, ma anche per forgiare le strutture sociali e politiche che danno forma e contenuti alla nostra vita comune.
Acqua, terra e democrazia sono quindi elementi legati da un denominatore comune, o, se preferiamo evitare termini matematici, da un filo conduttore che attraversa i secoli e arriva fino ai nostri giorni. Un motivo in più per curare, difendere e avere a cuore ognuno dei tre elementi, sapendo che sono interdipendenti, complementari e uniti da un legame indissolubile.

Pubblicato su La Guida del 14 luglio 022