Un ricordo di Beppe Rosso
In questi giorni ci sono stati diversi incontri sia a Demonte che a Borgo per ricordare Beppe Rosso, morto nel novembre di trent’anni fa. Anche la Guida ha dedicato ampio spazio alla sua figura di studioso e amante della montagna.
Beppe è stato ricordato come poeta, animatore, amministratore, insegnante. Io lo ricordo soprattutto come compaesano, vicino di casa, amico e maestro.
Aveva vent’anni più di me e le nostre infanzie non si sono incrociate, anche se abitavamo a pochi metri di distanza e le nostre case nel centro di Borgo condividevano il vicolo Airotto, il “carubi” come si diceva allora, vero spazio vitale e “comune” in cui noi bambini giocavamo liberamente, si pestavano e torchiavano le uve per fare il vino, si tagliava e spaccava la legna per l’inverno. Adesso è diventato una delle tante stradine del Comune, allora era davvero uno spazio comune, cioè di tutti e di ognuno e per noi bambini era l’unico parco giochi, la palestra e per molti aspetti anche la vera scuola.
Le nostre famiglie si conoscevano e si frequentavano, il papà di Beppe era Dalmazzo, da tutti detto Corpu, storico direttore didattico delle elementari e sindaco del paese. Figura imponente, in cui convivevano in giusta miscela autorevolezza e bontà, grande cultore della musica classica e soprattutto della lirica. Aveva una voce possente, baritonale, conosceva intere partiture a memoria, parole e musica. Una volta, in casa nostra, si era messo a cantare le diverse parti di un’opera di Verdi, duettando con se stesso e interpretando differenti personaggi.
La cultura doveva essere un male di famiglia, se è vero che il fratello del direttore, uomo meno portato alla vita pubblica e più propenso alle libagioni, aveva l’abitudine, dopo aver visto il fondo di un certo numero di bottiglie, di recitare in modo impeccabile interi canti della Divina Commedia a memoria. Roba da far invidia perfino a Benigni.
Per capire e ricordare Beppe bisogna partire da questa sua grande famiglia con tutte le sue ramificazioni e particolarità. La mamma, Lucia Verra, era una donna semplice e riservata, molto bella, originaria di Trinità, nel vallone dell’Arma di Demonte. Ed è proprio da lei, dalla silenziosa e sorridente Lucia che Beppe ha preso l’anima “muntagnina”, un imprinting indelebile, nato nelle lunghe estate giovanili in alpeggio. Beppe parlava poco di sé, ma mi aveva a volte accennato di sfuggita alle sue lunghe permanenze estive ai giàs d’alta quota. Aveva fatto studi classici e qualche anno di giurisprudenza, ma io sono convinto che siano state proprio queste esperienze da marghé e da pastre la sua vera università.
E’ stato quello che si può definire, senza paura di abusare come al solito delle parole, un vero sapiente. Nel senso antico del termine, quando la cultura era onnicomprensiva, non in quello attuale in cui ogni studioso si chiude nella propria specializzazione fino a sapere tutto su un numero limitato di argomenti e perdere di vista l’insieme.
Beppe era un solitario socievole e forse sta proprio in questa solo apparente contraddizione la sua grandezza e anche la sua unicità.
Ho sempre avuto l’impressione che la cultura poliedrica di Beppe fosse figlia della solitudine e dell’amore. Le sua conoscenze profonde, stratificate e multiformi erano nate in quella casa fra vicolo Airotto e via Bergia, un po’ nella cucina buona a tutti gli usi, unico locale riscaldato delle case di allora, un po’ nella cameretta spartana, in lunghi pomeriggi e lunghe serate solitarie. La cultura si era accumulata nella sua mente e nella sua persona con un processo lento e costante, era cresciuta negli anni come crescono nell’oceano i banchi di corallo, fino a diventare una massa imponente di dati, di nozioni, di abilità. Ore ed ore, giorni interi a raccogliere, seminare, costruire, dare ordine avevano creato un arcipelago di conoscenze, tutte collegate fra loro e sempre messe a disposizione degli altri, con semplicità e modestia. Le lunghe ore di solitudine non lo rischiudevano nella triste prigione dell’io, ma lo aprivano agli altri, lo spingevano a socializzare, a far festa, a suonare, a cantare. E il filo conduttore di questo insieme, apparentemente disomogeneo di abilità e capacità, era l’amore per la propria terra, per la lingua, il paese, la gente.
A differenza di quella di molti cattedratici o intellettuali, la sua cultura non aveva sede solo nella testa, partiva piuttosto dalle mani e dai piedi. Le mani, forti, dalla stretta decisa, che si erano svezzate ai mille lavori dell’abilità artigiana e contadina prima di adattarsi a seguire una penna o un pennello. I piedi, che lo avevano portato a spasso in ogni angolo delle nostre montagne, fino a dargli una conoscenza del territorio difficilmente eguagliabile.
Ricordo di averlo incontrato per caso, in un pomeriggio domenicale di tardo inverno a monte Croce, entrambi con gli sci e gli scarponi. Prima di lanciarsi nei prati del Buschìn alla volta di Piano Quinto, mi aveva indicato le cime innevate che ci circondavano, chiamandole ognuna per nome, come se si trattasse di vecchie amiche.
Il suo sapere era anche sempre un “saper fare” e questa sua capacità di tener insieme teoria e pratica lo ha portato a scrivere quello che io considero il più bel testo in assoluto sull’architettura montana, il capitolo intitolato con la consueta modestia “Cenni di architettura alpina” nel volume “Montagne nostre” del 1975, uno splendido libro corale, scritto a più mani, in occasione del centenario della sezione di Cuneo del CAI.
Nell’ormai lontanissimo 1978 stavo preparando la mia tesi di laurea sui pascoli della valle Stura e un giorno mi era capitato di incontrare per caso Beppe sotto casa sua. Senza pensarci gli avevo chiesto se sapeva qualcosa sull’origine dei nomi propri dei cento alpeggi che avevo esaminato. “Cheicusetta sai pru” era stata la sua risposta, col “pru” dopo il verbo quasi a rendere ancor meno assoluta la sua affermazione, già mitigata dal diminutivo, mentre mi faceva cenno di seguirlo nella sua stanza al primo piano. Due ore dopo ero uscito con decine di fogli di appunti: di ogni pascolo Beppe mi aveva raccontato la genesi del nome, la derivazione dal latino, dal greco, dal gallo celtico, dal gallo ligure, il significato e anche il perché della denominazione. “Monfieis è il monte dei faggi, si chiama così perché è un vallone mal esposto, umido e i pascoli sono circondati da faggete”. Me ne sono ricordato decenni dopo, quando mi è capitato di far legna proprio su quei pendii: per i casi della vita ero andato a vivere in zona e, fra i terreni acquistati c’era anche un alpeggio in quota che ci regalava il combustibile per la stufa.
Le parole, mi diceva Beppe, nascono sempre su substrati precedenti e a volte possono stratificarsi in modo curioso. Ad esempio, il Ventabren, una montagna che si trova poco oltre Vinadio (ma nomi simili ci sono anche nelle valli francesi) deriva da una radice ligure “bren” che significa monte e da un’altra celtica, “ven” che ha l’identico significato. Gli invasori celti avevano aggiunto la parola “monte” davanti a quella preesistente, che credevano un nome proprio, e noi ora facciamo lo stesso, col risultato di chiamare il Ventabren “monte-monte-monte”, tre nomi comuni per fare un solo nome proprio. Stessa cosa per il lago del Laus (che significa lago) o per il suo diminutivo Oserot, ma qui arriviamo solo alla seconda potenza.
Ora ci sono molti studi di toponomastica e di linguistica, ma allora erano davvero continenti inesplorati. La chiacchierata con Beppe era diventata un capitoletto della mia tesi e quelle poche pagine avevano attirato la curiosità e l’attenzione della commissione di laurea molto più di tutto il resto del mio lavoro di ricerca, regalandomi una buona valutazione finale.
Merito di Beppe, che già allora aveva capito che le parole sono come le pietre da costruzione, che hanno infinite vite e si possono assemblare in tanti modi diversi.
Qualcosa di lui è rimasto nei suoi libri, nelle sue poesie, nei racconti. Ma è solo la punta dell’iceberg. Tutto il resto vive nel ricordo di chi ha avuto la fortuna di incrociare la sua strada, di averlo come “maestro” e di condividere qualche sua giornata e questo “nostro” paese.
Pubblicato su La Guida del 13 novembre 2025
