Pellegrino a pedali

Scritto nell’autunno ’99, pubblicato da Primalpe nel 2002
Prefazione di Erri De Luca
E’ un libro difficilmente catalogabile, una miscela di realtà e fantasia, resoconto di viaggio, spiritualità e tecnica ciclistica.
Ristampato più volte, continua ad essere richiesto e letto ancora oggi, a distanza di diversi anni dalla pubblicazione.
Ha invogliato molte persone a intraprendere, a piedi o in bici, il Camino e ha tracciato un itinerario nella parte francese ripercorso e migliorato da decine di cicloturisti.
Perché “il più grande rischio di un viaggio, l’unico veramente irreparabile, è il non partire”

viaggio a Santiago di un uomo di poca fede

Introduzione di Erri De Luca

Un compagno di viaggio.
Improvvisamente nel capitolo dodici di Genesi/Bereshìt una voce acciuffa l’orecchio di Abramo e gli dice: “ Lekh lekhà meartzekhà”, vai vattene dalla tua terra. Così comincia l’avventura solitaria del padre dei monoteismi, i tre della terra santa. E’ viaggio di obbedienza. Più che a Sindbad e a Ulisse, lo sbaraglio migratorio appartiene ad Abramo. Lui è il viaggiatore e il viaggio, perché non consiste in un traguardo né in una conquista. Lui è tutto in quel: “ Vattene dalla tua terra”, nella fede di andare.
Metto Abramo a santo protettore delle strade raccontate da Lele Viola. Lui ha per cammello la bicicletta, per voce quella scambiata con altri passeggeri solitari della pista. Battuta dai passi pellegrini, lastricata di asfalto o di polvere o argilla, essa scorre secondo il ciclo operaio della giornata. Una sveglia anzi luce, una forza lavoro nelle gambe, un’ombra a mezzogiorno, poi la seconda parte, fino all’accampamento della sera. Come nella giornata di lavoro, conta il ritmo, il solfeggio musicale dei colpi che non devono premere sul fiato, invece assecondarlo, uscire insieme. Il segreto sta in una cantilena, a ognuno la sua. La mia veniva dal libro di Nehemia, dai muratori di Gerusalemme.
All’inizio del viaggio come di ogni giornata operaia si sconta lo sforzo di avviare, poi l’opera, la strada, corrono da sole sotto l’andatura. Certo è meglio il viaggio anziché le ore dentro il recinto dello sforzo salariato, ma tra i due sta alla pari lo stesso modo di onorare il tempo assegnato.
Chi viaggia e chi lavora più come fa Lele Viola? Chi sa raccontare ancora come va preso a verso il nostro giorno? Chi va in aereo è ovunque immobile, spedito e recapitato, e deve scattare fotogrammi per dimostrarsi: io c’ero. Lele non ha aggiunto al suo carico né pellicola né foglio per appunti, non tiene diario di bordo, trattiene solo il nome del luogo raggiunto nella giornata. Racconterà di certo, al ritorno, a chi avrà amore di ascoltarlo. E se nessuno c’è, allora scriverà, perché si fa scrittore chi non ha la persona alla quale dire, stare a dire. Scrittore è una mancanza, un rimedio, non un omaggio.. Lele Viola racconta la sua strada all’aria aperta, duemila chilometri a pedali. C’è di che congratularsi con le gambe che hanno saputo intendersi così a meraviglia con l’ingegnosa invenzione della ruota.
La stazione finale, la città di Santiago del campo della stella, sotto una brulla roccia di Galizia, non è un arrivo, ma il punto di rimbalzo per tornare indietro. Come la cima per un alpinista è la metà del viaggio, non la mèta.
Tocca alla ritirata, alla via di ritorno completare il viaggio. Perché la mèta, una volta raggiunta, è inabitabile. Come il sogno goduto, scardina il sonno e sveglia.
Chi arriva all’ultima pagina di Lele, ( ora può chiamarlo così, solo col nome) ha il pensiero grato di volerlo una volta per compagno di viaggio. Ma di viaggio lento, in cui i passeggeri s’incontrano grazie alla distanza da cui vengono, grazie al rispetto per le lontananze misurate a giorni di cammino, grazie all’ombra di una sosta a mezzogiorno, grazie al cuore pieno di ossigeno e di sangue, aperto come la bisaccia del viandante.

per Lele da Erri

Incipit

Il più grande rischio di un viaggio, l’unico veramente irreparabile è il non partire.

Come ci insegna la prima legge della dinamica, la partenza è infatti la cosa più difficile, bisogna vincere un attrito, una resistenza. Non lo si può fare senza impiegare una forza. Secondo i libri di fisica, invece, continuare a muoversi è uno scherzo, non occorre  alcuna forza applicata. Partire richiede sempre una manifestazione di volontà, uno sforzo, un distacco: significa lasciare qualcosa o qualcuno. Significa lasciare abitudini e certezze. Significa soprattutto volerlo.

Io oggi voglio partire.

Avevo in programma di farlo nei prossimi giorni, ho appena finito ieri sera di lavorare, non ho avuto tempo di prepararmi. Ma voglio partire oggi, subito.

Prima di ripensarci, prima di trovare qualche buon motivo per restare a casa.

Erano anni che avevo in testa questo viaggio, mesi che ne parlavo con amici e conoscenti, ma ora so che è arrivato il momento, anche se non ho niente di pronto.

La bici, una Stumpjumper bianca del 92 sembra strana con il portapacchi rinforzato, le borse nere e le nuove gomme poco tassellate. L’ho caricata il meno possibile, fedele alla mia filosofia del viaggiare leggero, ma tenda, sacco a pelo, materassino, fornello, pentole, cibo e qualche capo di vestiario riescono comunque a darle un’aria un po’ avvilita, come una povera bestia da soma sotto un carico eccessivo.

Nei giorni scorsi avevo fatto una lista delle cose indispensabili, per non dimenticare nulla, ma purtroppo ho dimenticato dove ho messo la lista ed ora giro a vuoto per la casa facendo a me stesso la solita domanda stupida: – Ho preso tutto? – .

La risposta a una domanda del genere è evidentemente sempre ‘no’, ma la conferma arriva sempre troppo tardi, quando ormai non si può più rimediare. Si fa allora una lista delle cose dimenticate, per ricordarsi assolutamente di prenderle la prossima volta, salvo naturalmente dimenticarsi di leggere la lista prima della nuova partenza. E così via.

Forse sarebbe meglio farsi invece la lista delle cose da ricordarsi di dimenticare e da lasciare assolutamente a casa, per partire con la mente più leggera. Ma sarebbe senz’altro una lista troppo lunga…