Tre vecchie foto

Scritto nell’autunno 2004, pubblicato da Primalpe nel 2006
La coincidenza del ritrovamento fortuito di foto scattate 25 anni prima con la lettura di un libricino francese sui forni da pane ha trasformato la cronaca vera di uno sciopero di emigranti italiani di inizio secolo in una storia, non vera ma verosimile, del primo dopoguerra. Anche in questo libro si parla di montagna, di emigrazione, di musica occitana, di uomini e donne delle nostre valli. L’ho scritto anche con la speranza che, in questi tempi smemorati, questa storia possa far ricordare il periodo in cui eravamo noi italiani a migrare, alla ricerca di una vita più dignitosa e sicura.

Incipit

Nella fotografia c’era qualcosa che non andava.
Ma non riuscivo a capire che cosa.
Era solo una lieve sensazione di disagio, un’impercettibile asimmetria. Come quando ci accorgiamo, entrando in una stanza, che un quadro è appeso storto o incontriamo qualcuno con i bottoni della camicia scompagnati…
La faccia era a posto. Begli occhi chiari in un volto magro incorniciato da due baffoni bianchi. La pelle era abbronzata, cotta da antichi soli, come un cuoio invecchiato dal tempo. Camicia di canapa grezza, la telo d’caso coltivata e tessuta in valle a ricordo di tempi di povertà dignitosa. Ma la giacca nera, i pantaloni con la riga, le scarpe di pelle marrone e soprattutto la cravatta vivace raccontavano di una certa qual tranquillità economica. O forse erano solo il ricordo di periodi migliori; o magari un vezzo, un tentativo di fingere un’agiatezza inesistente.
Il semitoun era appoggiato in grembo, il mantice aperto a inghiottire aria. Una cinghia spessa, cuoio da finimenti o pulegge, tagliava in diagonale le spalle, a reggere lo strumento. Le dita della mano sinistra sfioravano i tasti di madreperla in modo quasi casuale: si vedeva che non stava suonando davvero, ma piuttosto accarezzando lo strumento come si fa con un vecchio cane fedele.
Si intuiva una simbiosi fra l’uomo e quel pezzo di legno intagliato, quella scatola magica capace di trasformare cera, ottone e conchiglie rotte in suoni e armonia. Il semitoun sembrava far parte del corpo, era un insieme inscindibile del quadro. Non si poteva separare senza alterare in modo irreparabile la composizione. Come dalle foto di due amanti abbracciati sarebbe impossibile isolare i soggetti, districare le diverse membra…
Il pollice della mano destra, prigioniera della cinghia, teneva aperto l’arfiai, il tasto di legno che funge da valvola e permette di aprire il mantice senza far vibrare le ance.
Le altre dita erano appoggiate ai piccoli bottoni dei bassi.
Ecco cos’era che non quadrava! Il semitoun era al contrario!
Sui bassi avrebbe dovuto esserci la mano sinistra, riservando all’agilità della destra il più difficile compito di disegnare la melodia.
Suonare con lo strumento al contrario non è solo un approccio naturale da mancino nato: significa ribaltare tutto: melodia al posto dell’armonia, note acute al posto dei bassi. In poche parole: il mondo capovolto.
E’ rarissimo in chiunque abbia avuto un benché minimo insegnamento, anche solo di base. Significa che il vecchietto della foto aveva fatto tutto da solo: aveva trovato chissà dove un semitoun e si era arrangiato ad impararlo senza ricevere alcuna indicazione da eventuali maestri o compagni, senza neppure aver sotto gli occhi l’esempio di qualche altro suonatore.
La cosa cominciava ad interessarmi…

Qualche brano:
Nessuno mi ha mai insegnato niente, non so leggere neppure il mio nome, figuriamoci la musica. E poi la musica non si legge né si scrive, si suona.
Passavo tutto il tempo libero a rincorrere i suoni che le mie dita creavano, a dare aria al mantice per far vivere lo strumento. Perché il semitoun ha bisogno di aria, proprio come noi. Senza il soffio che lo attraversa non è nulla, è solo un soprammobile ingombrante. Allora suonavo come si respira, senza sapere come si fa, senza chiedermi troppi perché. La musica era il mio modo di parlare agli altri, il ponte steso fra il deserto in cui vivevo prigioniero e il resto del mondo. Era il mio modo di pregare, di cercare di raggiungere un Dio troppo assente e troppo nascosto per inseguirlo a parole. Soprattutto era il mio modo di farmi sentire, di dire a me stesso che esistevo…

La mia era musica allegra quando ero felice, malinconica quando ero triste, disperata quando mi sentivo chiuso fra le sbarre invisibili della mia solitudine. Solo molto più tardi ho capito che si suona come si vive: la musica non imbroglia, è l’unica forma di espressione con cui non puoi barare. Si inganna con le parole, con i gesti, con le figure: ma non puoi fingere con le note, nemmeno se tu fossi Paganini
Lo strumento è solo un amplificatore del tuo stato d’animo, un traduttore dei tuoi sentimenti. Ma queste son cose che dico adesso: allora non sapevo parlare, neppure a me stesso: suonavo, suonavo soltanto…-

(Il solito) Post scriptum

L’Occitania non è uno stato o una nazione, non ha mai avuto questa dignità politica: è una terra in cui si parla o si parlava l’antica lingua d’Oc, quella dei troubadour provenzali. Si estende in molte regioni francesi, dalla Provenza ai Pirenei, con qualche propaggine in territorio spagnolo e in alcune valli italiane in provincia di Cuneo e Torino.

La valle Varaita ha conservato, oltre alla lingua occitana, anche molte danze tradizionali: la gigo, la tresso, la courento, la cuntrodanso… Ogni suonatore tradizionale aveva un suo repertorio personalizzato: era anche, quasi sempre, compositore.
Gli strumenti usati erano soprattutto l’armoni a semitoun, cioè la fisarmonica diatonica, nelle sue diverse tipologie, il violino e, più anticamente la ghironda o vioulo.

Ho svolto servizio civile nel 1980-81 come obiettore di coscienza a Frassino, Fraise, paese della media valle e ho conosciuto personalmente alcuni degli ultimi suonatori tradizionali di semitoun: Mlinot Coustans, Zac, Giouan Bernardi. In quegli anni, mi dedicavo alla ricerca e alla riproposta della musica occitana e ho passato qualche centinaio di serate a soffiare in vari strumenti a fiato (clarinetto, pinfre, galoubet) per animare balli e feste di paese nelle valli.
Le foto che sono uscite una sera dal mio cassetto e han dato vita a questa storiella le ho scattate in quel periodo.
Armato di una vecchia reflex e cavalletto, in anni in cui la parola scanner poteva far pensare al più a qualche attività di bassa macelleria, passavo il tempo libero a fotografare vecchie istantanee di famiglia, prese a prestito dalla gente di Frassino con l’intenzione di farne una mostra. Uno dei tanti miei progetti rimasti tali.
Il suonatore che tiene il semitoun al contrario è Zac de Fraise, autore di una bellissima countrodanso. E’ ritratto davanti a casa sua: ha appena finito di suonarmi il suo balèt.
La terza foto ritrae uno sciopero di inizio secolo a Parigi a cui avevano partecipato emigranti italiani della val Varaita.
Il signore coi baffi e rastrello (la quarta delle tre foto…) è invece un contadino di una frazione, incrociato durante una delle nostre corvées da cantonieri aggiunti, addetti alla manutenzione delle innumerevoli strade sterrate del comune.
Questi signori, naturalmente, così come la coppia di anonimi sposi di inizio secolo della seconda foto, non hanno niente a che vedere con la storiella che ho scritto, né per il carattere dei personaggi, né per la trama del racconto.
Le foto mi son capitate in mano nell’autunno 2004 nel periodo critico equinoziale in cui sento il richiamo della penna e mi hanno fatto venir voglia di trasformare le immagini in parole. Proprio in quei giorni un’amica, Maria Grazia, mi aveva prestato un interessante libro francese di Edmond Mari sui forni (altra mia passione, ereditata da un nonno mugnaio, quella di trasformare grano in farina e la farina in pane). Da “La dernière fournée” ho preso la cronaca di uno sciopero di lavoratori italiani finito male e le notizie sulle durissime condizioni di lavoro degli operai nelle cave e nelle fabbriche di mattoni. Ho mescolato il tutto, come si fa con l’impasto di farina, acqua e sale, ho messo una manciata di crescent, la massa è cresciuta, gonfiata dal lievito dell’immaginazione ed è venuta fuori questa storiella. Le notizie storiche erano scarne, le date non collimavano, (la grève in questione è del 1902), ma la coincidenza del ritrovamento fortuito di foto scattate venticinque anni prima a Frassino con la lettura del testo francese era troppo appetitosa per trascurarla. L’incrocio di immagini e parole ha trasformato quella cronaca vera di inizio secolo in una storiella – non vera, ma verosimile- del primo dopoguerra.
D’altra parte Bjorn Larssons in una chiacchierata davanti a una bottiglia di grignolino al Diavolo rosso di Asti qualche tempo prima, mi aveva detto: – Non è perché è immaginato che non è vero, la letteratura deve immaginare “vero”-
Questa storiella non ha alcuna pretesa di essere letteratura, ma è sicuramente “immaginata vera”.
– Gli altri – ha proseguito Bjorn – si conoscono con l’immaginazione. Occorre vedersi nei panni dell’altro, immedesimarsi nell’altro… Il fanatismo nasce da una mancanza di immaginazione…-
Ricordo bene quelle frasi, mi hanno colpito. E sono convinto che, in tempi in cui il fanatismo sembra prosperare, concimato da intolleranza e ristrettezza mentale, possa essere utile ricordare giorni in cui eravamo noi italiani a emigrare, a vivere in clandestinità, a varcare confini alla ricerca di una vita migliore.