Lo strano caso di Entracque 4

Ogni crescita incontrollata ha in sé i germi della rovina e già a fine Cinquecento, in pieno boom demografico, Entracque comincia ad accusare problemi di gestione, di controllo e di coesione interna.
L’arricchimento di alcune famiglie e l’impoverimento di altre ha riflessi anche nella sfera normativa della Comunità e nello stesso periodo la gestione paritaria dei pascoli comuni viene sostituita da nuovi criteri che privilegiano i grandi allevatori.
La parabola discendente è accentuata dallo spostamento dei commerci sulla direttrice del col di Tenda, a scapito del passaggio attraverso il locale colle delle Finestre.
Nel corso del Seicento l’attività di lavorazione della lana sembra entrare in crisi e a fine secolo delle quattro macchine follatrici ne rimane una soltanto, associata al frantoio da canapa, olio e miglio. La diminuzione delle attrezzature è parallela alla decrescita della popolazione, che inizia ad avere saldi negativi.
A fine 1600 gli abitanti sono 3700, con una perdita di quasi 1200 residenti in meno di trent’anni (erano 4750 nel 1667). La crisi dell’industria tessile si accentua negli ultimi anni del secolo e nel primo decennio del Settecento, cioè proprio nel periodo immediatamente precedente alla Relazione del 1716, da cui eravamo partiti per questa lunga chiacchierata.
Il record del 62% di poveri diventa allora comprensibile ed è la fotografia di un’industria che dopo anni di boom sta vivendo un periodo negativo che si riflette in modo drammatico sulla manodopera salariata accorsa in massa negli anni precedenti.
Resta la curiosità di sapere quale sia stata la causa di questa crisi. Di certo non mancava la materia prima, cioè la lana, perché l’attività di allevamento sembra non risentire del periodo difficile.
Le famiglie di notabili di Entracque, anzi, sembrano reagire a questa situazione di oggettiva difficoltà allargando in modo sensibile la loro sfera d’azione, affittando pascoli fuori dal territorio d’origine e “invadendo” col loro bestiame le valli vicine, Stura, Grana, Maira. I capitali accumulati nei decenni precedenti consentono loro di non avere rivali nelle aste di assegnazione dei pascoli, rilanciando con cifre insostenibili per gli allevatori locali. Per questo, arrivano a esercitare un vero e proprio monopolio, che riempie le casse dei comuni dotati di vasti pascoli da affittare, ma va a detrimento degli allevatori e agricoltori locali.
Forse la crisi dell’industria tessile derivava dall’incapacità di reggere la concorrenza di altri centri produttivi, migliorando la qualità del prodotto. Forse la materia prima, cioè la lana delle pecore locali, era grossolana e meno pregiata rispetto a quella di altre zone e di altre razze ovine. Forse anche in quegli anni lontani il mercato era spietato e selettivo e sopravvivevano solo i migliori e i più capaci di adattarsi.
O forse, più semplicemente, gli abitanti di Entracque erano bravissimi a fare gli allevatori e anche un po’ i commercianti, ma molto meno a fare gli industriali. In fondo, essere un buon pastore è una vocazione e un mestiere che non si improvvisa, ma non ha molto in comune con un’attività produttiva meccanica e ripetitiva.
E forse il paese di Entracque avrà ritrovato con piacere le sue dimensioni ridotte e famigliari, scordandosi degli anni un po’ folli in cui aveva provato a imitare le città industriali. A voler guadagnare troppo a volte si perde l’anima, e proprio questo sembrava essere capitato al centro della val Gesso nel periodo della crescita fuori controllo.
La Storia è anche occasione per raccontare storie e appagare curiosità, e sono contento di aver capito, alla fine, il mistero dello strano numero che mi aveva stupito leggendo la Relazione del 1716, quel 62% di poveri che contrastava con l’idea di ricchezza e potenza che mi ero fatto nelle mie ricerche precedenti.
E la storia di nostri paesi ha anche una forte connessione con la geografia, è fatta di persone, ma anche di luoghi. Passeggiando per i tre “terzeri” che componevano il paese di Entracque (Paschìer, Chiapìer e Autarì) è possibile immaginare come potesse essere strutturato una volta, dove fossero impiantati i magli, come vivesse la gran massa di salariati (la “minuta gente” della Relazione), dove sostassero le migliaia di ovini in attesa dei vari spostamenti.
Oppure salendo per l’interminabile sentiero che porta al Pagarì ci verrà in mente il progetto visionario e un po’ folle di Paganino e la sua ostinazione suicida a voler tener aperto un passo a quasi tremila metri di quota per nove mesi all’anno, in tempi in cui l’unica energia disponibile arrivava da gambe e braccia.
Chissà cosa direbbe il buon Paganino se sapesse che in quest’epoca di pale meccaniche e alta tecnologia per quattro fiocchi di neve chiudiamo il Maddalena, mille metri più basso.

Pubblicato su La Guida del 12-3-020