Lo strano caso di Entracque 3

Una crescita demografica che porta a decuplicare in meno di due secoli la popolazione non può non turbare i delicati equilibri interni della società di un paese di media montagna. L’immigrazione era a quei tempi un fenomeno geograficamente ristretto, gli “extracomunitari” di allora erano persone non nate nella stessa Comunità, e provenienti magari dal paese o dalla valle vicina, ma i problemi di inserimento, adattamento e accoglienza non dovevano essere molto diversi da quelli attuali.
L’arrivo repentino di grandi masse di persone comportava problemi logistici, igienici, di ordine pubblico, di sfruttamento. Ne troviamo traccia negli Ordinati della Comunità, riportati dal prezioso saggio di Deidda, Arneodo e Volpe.
Il mulino non è più sufficiente per macinare cereali per tutti e nel 1599 si deve aggiungere “una rota”, la chiesa non ha spazio per contenere tutta la popolazione, visto che “il populo è talmente multiplicato” e nel 1600 deve essere ampliata e ristrutturata; perfino la “caldera” della confratria non basta più a far cuocere i ceci per tutti a Pentecoste e per il troppo uso si è pure sfondata, per cui nel 1605 si decide di “far una caldera nova e far un fondo alla sudeta disfondata…”.
Anche la tranquillità di quello che era prima un piccolo paese sembra svanita: nel 1609 si registrano furti notturni, le osterie diventano luoghi in cui “molti Particolari disonistamente consumano loro sostanza et fanno patir in casa le loro proprie mogli et figli”. La soluzione, in quest’ultimo caso è drastica e la Comunità interpella le autorità centrali e ottiene dal Sovrano un “privilegio perpetuo” che vieta agli abitanti di Entracque di frequentare osterie. Non è dato sapere se il tentativo di proibizionismo abbia avuto effetto e neppure cosa ne pensassero gli osti, trovandosi all’improvviso disoccupati.
Già nel 1591 il Consiglio aveva cercato di arginare il fenomeno dell’arrivo incontrollato di nuovi abitanti vietando di affittare loro case o anche solo di ospitarli, “soto pena di scudi dieci per caduna persona”.
La storia si ripete, verrebbe voglia di dire, e i problemi di oggi non sono troppo diversi da quelli di ieri, come anche i tentativi di soluzione a base di divieti e di multe. Problemi reali, da non sottovalutare, ma spesso soluzioni troppo semplicistiche e in fondo inutili.
In modo meno visibile, ma più subdolo e ancora più grave, l’arricchimento repentino di una parte delle famiglie aveva distrutto la struttura paritaria e solidale della antica società pastorale, introducendo disparità, gelosie, egoismi che si erano tradotti anche in normative gestionali dei pascoli comunitari che favorivano alcuni a scapito di altri.
Di certo, quella morale comunitaria che aveva permesso agli abitanti di far fronte a traversie, guerre, pestilenze e tempi duri non aveva retto di fronte agli squilibri introdotti dai forti capitali accumulati in pochi anni da alcuni e dai relativi cambiamenti di tenore e stile di vita. Un paese non diventa impunemente una cittadina senza lasciare qualcosa per strada e spesso è più facile trovare coesione e concordia in tempi difficili che nei momenti di crescita economica troppo veloce.
Crescita che è comunque destinata a fermarsi, come insegna la storia, il buon senso, la fisica e come ribadiva pure Keynes, che nella sua teoria dei cicli economici faceva notare che ogni boom è seguito da stagnazione e recessione, quando non da veri e propri crolli.
Per Entracque, l’inizio della crisi è stata forse l’acquisizione da parte dei Savoia della Contea di Tenda nel 1579 e la conseguente scelta di privilegiare la via passante per Limone e la val Roia per il trasporto di merci e per il rifornimento di sale, a scapito del più problematico collegamento attraverso gli alti passi della val Gesso.
Uno dei fattori che aveva giocato a favore degli abitanti di Entracque nei secoli precedenti era stata, infatti, la posizione strategica lungo una via naturale di collegamento fra Nizza e Torino, in particolare attraverso il colle delle Finestre e Saint Martin-Vésubie. Si trattava di un percorso alternativo a quello passante per Limone, forse meno agevole, ma che consentiva di evitare gli esosi pedaggi imposti dai signori di Tenda (1200 scudi all’anno solo per il trasporto del sale) e quindi molto praticato.
Percorso che era stato addirittura raddoppiato verso la metà del Quattrocento, con il velleitario e un po’ folle progetto attuato da Paganino Dal Pozzo attraverso il colle che oggi prende il nome proprio da lui, il Pagarì e che supera i 2800 metri di altitudine.
I Dal Pozzo li abbiamo già incontrati all’inizio di questa storia e Giorgino, che contendeva ai Morra la guida della città di Cuneo, era proprio il figlio dello sfortunato Paganino. Quest’ultimo, si era prima arricchito con la gestione della gabella e poi si era rovinato intestardendosi a voler tener aperto a sue spese il passaggio a una quota troppo elevata.
“Tan che Pagarì pagarà lou pas pasarà…recita la prima parte di un detto ancora ricordato a Saint Martin, che prosegue dicendo che, non appena l’esattore smetterà di pagare, il passo ritornerà non transitabile. Saggezza popolare, o semplice buon senso di montanari che sanno che d’inverno nevica… (Paganino era originario di Alessandria).
L’accordo capestro fra l’esattore e il duca Lodovico di Savoia prevedeva che tutte le spese fossero a carico del proponente, che si impegnava a mantenere aperto il passaggio per nove mesi all’anno, in cambio della riscossione della gabella. Il finale della storia è scontato e il povero Paganino diede fondo alle sue ingenti sostanze nel tentativo di onorare il contratto.
Il Rebaccini nella sua Cronaca ci informa che l’esattore era un tipo alla mano e di cuore e sembra dispiaciuto per la sua triste fine. Paganino morirà nel 1469 in miseria, dopo aver venduto i suoi ingenti beni per pagare i debiti (fra l’altro, quella che adesso chiamiamo Torre dei Frati con oltre mille giornate di terreno).
A distanza di secoli è difficile farsi un’idea precisa del personaggio, comunque affascinante, e il quadro idilliaco proposto dal Rebaccini è forse condizionato dal suo essere parte in causa e amico del figlio. Di certo, era un imprenditore visionario con indubbie doti e capacità (un suo precedente progetto aveva consentito di risparmiare un giorno di viaggio verso Nizza con la costruzione di alcuni ponti), ma con scarso senso pratico. Una persona “di cuore”, disposta a perdere tutto per inseguire un sogno un po’ folle.
Se ripassiamo l’elenco dei suoi beni immobili persi nell’azzardo di costruire la sua personale via verso il mare ci viene da pensare che Paganino abbia pagato un tributo molto alto al suo sogno, alla sua ingenuità e forse alla sua pazzia.
Ma io penso che, tutto sommato, non sia un prezzo così eccessivo, per avere il proprio nome immortalato per sempre in uno dei più bei passi alpini e in un rifugio “magico”, all’ombra del Clapier e della Maledia. (continua)

Pubblicato su La Guida del 5 marzo 2020