Relazione del 1716/4 Sulla traccia dei ceci

La Relazione del 1716 ci regala uno sguardo d’insieme della nostra provincia alla vigilia del decreto di soppressione delle confratrie e ci permette di riflesso di capirne l’importanza e la diffusione capillare nei nostri paesi ancora all’inizio del Settecento.
Con l’anno successivo non si parlerà più di queste associazioni, che finiranno di essere confuse con le tante confraternite con cui condividono in parte il nome, l’etimologia, l’ispirazione cristiana e alcuni scopi sociali, pur differenziandosene per caratteristiche essenziali.
Confusione che è naturale e comprensibile, sia per l’assonanza dei termini, sia perché alla base di entrambe le associazioni c’è quel sostantivo “fraternità” che, pochi anni dopo, entrerà a far parte della trinità laica della Rivoluzione francese, assieme a libertà e uguaglianza. Il che ci porta a pensare che i cugini d’oltralpe non abbiano poi inventato nulla di nuovo, ma solo ripreso e dato corpo a principi connaturati con la dimensione umana e la cultura cristiana. La fratellanza di ogni essere umano è scritta nel codice genetico e nella coscienza di ogni persona, ancor prima di diventare conseguenza di professioni di fede, di scelte religiose o di rivoluzioni politiche. E, a differenza dei primi due lati del triangolo su cui dovrebbe poggiare ogni società, quella libertà ed uguaglianza per cui si può lottare in modo pacifico o violento, la fraternità non si può imporre e si costruisce solo nella reciprocità e nella paziente tessitura di rapporti basati su giustizia, lealtà, rispetto e amicizia.
L’incertezza sulle origini, che si perdono nella notte dei tempi e di cui si sa ben poco, la scomparsa improvvisa che ne cancella anche il nome e la memoria, la scarsità di documentazione dovuta alla minima o inesistente struttura burocratica, la modernità (o meglio perenne attualità) dell’approccio di condivisione delle risorse su base egualitaria e di assistenza attenta alla dignità dei meno fortunati, la capacità di autogestione e l’ostinata indipendenza da tutti tipi di potere: sono tutti motivi che avvolgono le confratrie in un fascino un po’ misterioso e ce le rendono interessanti e “attuali”.
Per gli stessi motivi non è facile però ricostruirne la storia e le complesse vicende.
Anche per questo, la Relazione del 1716 è particolarmente preziosa. Dopo questa data, infatti, per ritrovare le tracce delle confratrie dobbiamo scavare nell’enorme massa documentale e burocratica delle Congregazioni di carità, affidarci alla memoria legata agli immobili, case e terreni, o seguire la pista dei ceci.
Assecondando la mia vocazione di aspirante contadino e in mancanza dei requisiti minimi per affrontare complesse ricerche storiche ho cercato, come il Pollicino della favola, di ritrovare le tracce di questi antichi legumi, oggi da noi quasi dimenticati.
Comincio dal paese della mia infanzia, Borgo, di cui la Relazione ricordava la consuetudine di distribuire a Pentecoste “cecci e pane a tutte le fameglie”. La “casa publica” consisteva in tre sole stanze, di cui una usata per le riunioni del consiglio e “due per far cuocere li cecci in dette feste”. Questo dimostra che l’edificio comunale era, almeno in origine, la casa della confratria.
Anche ad Aisone le “due stanze e una crotta” a disposizione della Comunità sono di proprietà della confratria. Stessa situazione a Roccabruna. A Roccavione la casa comune di sette stanze è usata in modo condiviso e serve per le riunioni del consiglio, per le scuole e l’abitazione del loro Rettore “e l’altra parte per servitio della Confratria”.
A Dronero l’ospedale eretto nel 1606 “ebbe principio con una fabrica raggionevole costrutta al luogo di una casa della Confratria a quale si aggregarono tutti li beni d’essa Confratria”.
A Centallo si distribuivano ceci in una delle tre elemosine pubbliche previste da un lascito ereditario a favore dell’ospedale. Nel giorno del Giovedì santo si davano ai poveri “emine quatro fabe, una ciceri ridotte in minestra, emine quatro barbariato ridotte in pane et una brenta vino”. Le altre due elemosine, in data diversa, erano uguali per consistenza alla prima “alla risalva de ciceri”, cioè senza ceci. Inoltre vi era un’elemosina pubblica di 30 lire in occasione della benedizione della campagna “più o meno secondo l’arbitrio, oltre alla distribuzione generale nelle feste di Pentecoste”.
I 1700 poveri di Entracque, come ho già ricordato in precedenza, potevano contare su un fondo di ben 500 lire annue convertite “in tanti ciceri alle feste di Pentecoste”.
In quasi ogni paese la solennità della Pentecoste è legata ai ceci e alla distribuzione di alimenti ai poveri. E, per una curiosa coincidenza, la scomparsa delle confratrie sembra preannunciare la scomparsa del cece, coltura ormai quasi dimenticata nelle nostre zone e che sarebbe interessante recuperare.
Il cece è una leguminosa da granella di probabile origine asiatica, diffusasi in Europa in tempi remoti e già conosciuta da Egizi, Ebrei, Greci, Romani. Resiste bene alla siccità e si adatta a terreni poveri, di cui migliora la fertilità fissando l’azoto atmosferico. A differenza di soia, fagiolo e pisello non è stata ancora oggetto di attenzioni delle ditte sementiere e delle multinazionali del miglioramento genetico e si ostina quindi a produrre poco.
In compenso, i ceci sono ricchi di proteine, di vitamina A e di saponine capaci di legare il colesterolo ed hanno una composizione equilibrata. Proprio la ricchezza in proteine rendeva il cece prezioso in passato per la sopravvivenza dei più poveri che non potevano permettersi il lusso di proteine animali e rischiavano carenze gravi di queste indispensabili sostanze.
Da noi la coltura del cece è praticamente scomparsa, sostituita dal più produttivo, appetibile e adattabile fagiolo, arrivato dall’America con Colombo e successori. In provincia è ancora coltivato a Nucetto e nei vicini paesi della val Tanaro. La sostituzione credo sia stata molto graduale e nel Settecento il cece era sicuramente ancora basilare per l’alimentazione nei nostri paesi.
Purtroppo, non è facile quantificare l’estensione coltivata allora e neppure la produzione perché le statistiche di quegli anni conservate negli archivi comunali e le Relazioni si limitano ad indicare la voce legumi, senza differenziare le varie specie. A Cervasca, ad esempio, il Verbale di Consegna delle produzioni agricole del 1746 riporta 85 emine di fave e 840 di altri legumi. È probabile che buona parte dei 150 quintali denunciati sotto quella voce generica fossero allora ceci.
In tempi in cui la produzione di sementi è monopolio di poche multinazionali che inseguono il loro profitto e gli aumenti quantitativi di resa sarebbe forse il caso di riprendere a coltivare l’umile e prezioso cece, pianta rustica, adattabile e soprattutto non “migliorata” secondo i criteri moderni.
E magari sarebbe il caso di dare vita nuova alle antiche confratrie, nel senso di ritrovarne lo spirito (con o senza iniziale maiuscola) capace di mettere insieme la difesa delle risorse con la giusta ripartizione della ricchezza e la dimensione locale con la fratellanza universale.

Pubblicato su La Guida del 6-2-020