Relazione 1716/5 Vestire gli ignudi

Vestire gli ignudi è una delle sette opere di misericordia corporale che ci elencavano al catechismo nei lontani anni della nostra infanzia e già allora ci sembrava la più strana del gruppo, sia per la parola insolita e arcaica, sia perché, anche in quei tempi ormai remoti, la nostra beata generazione collegava la nudità più al concetto di bagni al fiume e vacanze estive che alla necessità di ripararsi dal freddo e alla sofferenza per non potersi scaldare adeguatamente.
Penso che sia difficile per noi, nati con i putagé e le borse dell’acqua calda nel letto e cresciuti con la diffusione del riscaldamento centralizzato, immaginare come doveva essere in passato vivere d’inverno nei nostri paesi per i tanti “poveri mendicanti”. Per chi ama i numeri, la Relazione del 1716 ci informa che la percentuale di questi ultimi era in media di oltre il 16% nell’intera Provincia, e in diversi nostri comuni erano nella miseria assoluta da un quarto alla metà degli abitanti.
Ancora nel recente passato in montagna l’unico riscaldamento era quello animale, nella stalla, e la poca e preziosa legna disponibile era usata per cuocere i cibi, ma non per scaldare gli ambienti. Nel Settecento l’inverno doveva davvero meritarsi la definizione di cattiva stagione per i tanti che non avevano mezzi per coprirsi adeguatamente, scaldarsi e proteggersi dalle intemperie.
Quando pensiamo al passato dobbiamo anche tener presente che il potere d’acquisto del denaro era molto diverso da quello attuale e la scala di valore dei beni non era paragonabile a quella a cui siamo abituati. Non è quindi possibile fare confronti usando i parametri odierni e dobbiamo fare lo sforzo di calarci nella realtà dell’epoca, se vogliamo cercare di capire davvero la situazione di allora.
Il lavoro manuale, a meno che non si trattasse di artigianato di alta specializzazione, era pagato poco o niente, e anche gli stipendi per i pochissimi dipendenti pubblici erano bassi, mentre cereali, cibo, materiali, utensili, vestiario e calzature potevano avere prezzi che ora troveremmo esorbitanti. A fine Seicento il “serviente di Comunità” a Cervasca (una specie di factotum che faceva il messo, il “sepelitore” e molto altro) era pagato 27 lire all’anno, cifra sufficiente appena a comprare un quintale di grano (sia pure ai prezzi da rapina dei fornitori dell’esercito di quegli stessi anni). La Comunità spendeva molto di più a comprare al messo un vestito che a pagargli lo stipendio per tutto l’anno. Le corde per la campana costavano sei lire, la metà dello stipendio annuale dell’incaricato di suonarle (non solo per le esigenze civili o religiose, ma soprattutto “in occasione dei cattivi tempi”, per scongiurare la grandine).
Nel Settecento, se per i tanti miserabili era già difficile riempirsi la pancia, procurarsi coperte, vestiti e scarpe doveva essere davvero impossibile. Per questo non stupisce che fra le varie elemosine elencate nella Relazione del 1716 si parli spesso di distribuzione di teli, drappi, panni e altri tessuti dai nomi per noi inconsueti e di “vestire i poveri”.
A Cuneo, “alla mente del voto fatto in tempo del contagio la Città veste 24 poveri e distribuisce 24 emine di segale ridotta in pane”. La Confraternita di san Sebastiano veste 12 poveri, quella della Misericordia 3, l’Ospedale 24. Altri poveri sono vestiti grazie alle “obbligationi perpetue” derivanti da lasciti di privati benestanti.
Ad Aisone l’ospedale, pur mancante di letti e mobili, ha un reddito di 163 lire annue che spende in buona parte per l’acquisto e la distribuzione ai poveri di “panni Pamelini” e “il restante in aiuto de poveri Pelegrini”.
A Borgo san Dalmazzo la Comunità “per consuetudine antica suole annualmente vestire tanti poveri bisognosi per l’ammontare di lire 300”.
A Beinette “la Confratria ha un fondo perpetuo… di 46 lire annue che sono distribuite ai “poveri del luogo in tante scarpe e panni lanei”.
A Centallo grazie a un lascito testamentario si destinano 80 lire annue per “vestir poveri” e una cifra variabile, intorno alle 300 lire “da impiegarsi in dottare povere figliuole in ragione di Lire 50 caduna”.
A Caraglio l’ospedale impiega parte dei redditi di un terreno e degli affitti di una “casa e ayra” per vestire ogni anno 10 mendicanti, ma la consuetudine è sospesa “per l’erezione di una chiesa della Confraternita de Disciplinanti” che impiega tutte le risorse disponibili.
A Chiusa Pesio i redditi di due lasciti testamentari e di “cinque piccole pezze di terra e boschi di castagna lasciati da diversi particolari” sono convertiti “in tanto drapo meyson e scarpe per indumenti de più bisognosi del Luogo”. Nel corso dell’anno si fanno anche due collette “da una compagnia di donne aggregate sotto il titolo della carità, una di grano l’altra di castagne”.
A Demonte vi è “un fondo di lire 200 annue che la Comunità converte in tanti panni per vestiario de poveri”. Tale fondo proviene dall’alienazione dei fabbricati dell’ospedale a favore della Comunità, avvenuta in tempi remoti e di cui non vi è traccia scritta, ma solo una “traditione verbale degli antichi”.
A Entracque il fondo annuo di 900 lire è usato parte per distribuire ceci e parte per l’acquisto di “tanto drappo grosso” da donare ai poveri in occasione della festa di sant’Andrea.
A Pietraporzio era obbligo dell’ospitaliere “mantenere alcune coperte e lenzuoli per servitio de Pellegrini” ma “al presente” questo dovere è caduto in disuso.
A Vinadio non si vestono poveri, ma ci sono due lasciti testamentari col patto che “venendo qualche figliola povera a maritarsi sia tenuto esso ospedale a soccorrerla conforme al bisogno di essa”.
A Valdieri per “un legato antichissimo senza titoli” vi è un reddito di 40 lire annue “quali s’impiegano nella compra di panno ordinario” per vestire i poveri più bisognosi alla festa di san Martino.
San Martino, che con l’illusione della sua breve estate segnava l’arrivo dell’inverno, era il santo adatto e la data giusta per fornire agli oltre undicimila poveri mendicanti censiti nella Relazione (su un totale di circa settantamila persone in tutta la Provincia, uno ogni sei abitanti) se non un mantello, almeno qualche “panno ordinario o grosso” per affrontare i rigori della cattiva stagione.

Pubblicato su La Guida del 13 febbraio 2020